“La libertà, Sancio, è uno dei doni più preziosi che i cieli dettero agli uomini… Quindi per la libertà come per l’onore si può e si deve rischiar la vita” - Cervantes – “Don Chisciotte”
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“Voce del verbo restare”. Pietro Comito

comitopietro600di Valeria Guarniera – “Il giornalismo deve dire la verità e la verità non ha bisogno di essere etichettata come ‘antimafia’, la verità è di per sé antimafia”. Pietro Comito, giornalista calabrese da sempre in prima linea nel racconto delle vicende giudiziarie legate ai clan del vibonese, non accetta la definizione di “giornalista antimafia”. Minacce e intimidazioni, querele e richieste di risarcimento assurde – “l’arma più potente di cui le mafie si servono per spezzare la penna del cronista” – non hanno intaccato il suo amore autentico per questo mestiere. Appassionato e fiero, quando attraverso il suo racconto riesce a fare memoria. Amareggiato e deluso, nel dover fare i conti con le difficoltà dell’essere un cronista in Calabria: “Qui fare informazione libera è quasi impossibile”. Abituato a difendersi dai ‘nemici conosciuti’, “quelli che, spavaldi, ti guardano in faccia mentre ti intimano di fermarti”, ha imparato a riconoscere mascherati “che ti chiedono di rispondere ad altre logiche”. Tutto ciò che vai a toccare qui –spiega – finisce col toccare degli interessi: “Allora, qualunque cosa tu scriva, ti fai la domanda: “E dopo che succede?”, e puntualmente vieni assediato. Perché da noi in qualche modo tutti i poteri sono collegati e con l’esperienza capisci che i nemici non sono sempre quelli con la pistola in mano”. Direttore della redazione giornalistica de Lacnews24 , è stato caposervizio del Quotidiano della Calabria e di Calabria Ora. Tanti i premi e i riconoscimenti che lo gli sono stati conferiti, ma lui non ne ha mai fatto un vanto: “E’ stato bello, ma adesso basta: torniamo a fare il nostro mestiere”. Professionale, severo, perfezionista: Pietro il giornalismo lo pratica nell’unico modo che conosce, con passione e serietà. Tra luci e ombre, resta in Calabria: e la indaga, la racconta, la ama – nonostante tutto – , auspicando quel cambiamento che solo una terra affrancata dal bisogno potrà realizzare. 

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Come ti sei avvicinato al mondo del giornalismo?

Le prime esperienze sono legate alla mia passione per il mondo dello sport, in particolare per il calcio: me ne occupavo per alcuni settimanali e periodici locali. Poi arrivai alla redazione del Quotidiano – mi proposi io – e Domenico Mobilio, caposervizio all’epoca alla redazione di Vibo Valentia, mi disse che non c’era possibilità di inserimento in quel momento. Da testardo quale sono, non mi arresi, mi accomodai su una sedia e di fronte alla sua perplessità dissi: “Chiamate i Carabinieri, perché io non mi muovo”. Restai per qualche ora lì seduto, mi ripresentai il mattino successivo e quello dopo ancora. Finchè non decisero di “darmi qualcosa da fare” ché tanto da lì non mi sarei mosso. Dai primi comunicati stampa da sistemare – in cui ebbi modo di dimostrare tutta la mia professionalità – ai primi veri incarichi il passo fu breve: quel mestiere ce l’avevo nel sangue e finalmente fu chiaro anche a lui, che mi presentò al direttore, spendendo bellissime parole: ormai facevo parte a pieno titolo della redazione. Continuavo a preferire lo sport, ma mi occupavo un po’ di tutto. Finchè un giorno proprio Mobilio mi accompagnò in un’aula di giustizia. Era la prima volta che seguivo un processo, ed era la prima volta in cui il testimone di giustizia Masciari deponeva. Descrissi, nel pezzo, il suo stato d’animo, accompagnai il lettore dentro l’aula, raccontando sentimenti e sensazioni di un momento così intenso. Questo mio modo di andare oltre la mera cronaca piacque e – con la fortuna di avere Mobilio come maestro – iniziò così la mia avventura nella cronaca giudiziaria, una passione autentica.

Hai sempre saputo che tipo di giornalista volevi essere e lo sei stato fino in fondo. Ma c’è un modo di fare giornalismo che a te non piace: quello che appare sfrontato, forzato, alla ricerca dello scoop a tutti i costi. E, la tv in particolare, è piena di “inviati improvvisati” che, nel bene o nel male, hanno il loro seguito

Quello, a mio parere, non è giornalismo: piuttosto è un modo di fare televisione. E’ diverso dal fare informazione e non mi piace. Ci sono programmi di questo genere molto seguiti, è vero. Ma non è detto che l’audience vada di pari passo con l’apprezzamento. Mi spiego: alcuni programmi piacciono, e hanno un discreto seguito. Altri vengono seguiti perché c’è la zuffa, l’ospite particolare o l’inviato sopra le righe. Suscitano interesse, curiosità. Ma non significa che piacciano. E’ televisione, appunto. L’informazione è altra cosa. Ci sono vari modelli giornalistici: c’è quello giustizialista, garantista. A me piace il giornalismo ancorato sui fatti. Quello di Giuseppe D’Avanzo, di Carlo Bonini, Attilio Bolzoni, Liana Milella, Arcangelo Badolati. Questi sono per me i giornalisti a cui ispirarci.

C’è stato un momento preciso, un avvenimento, un caso specifico in cui hai capito che sì: era questo il mestiere della tua vita. Ed un momento in cui ha fatto fatica?

Il processo per Federica Monteleone – la studentessa di Vibo Marina deceduta, a soli 16 anni, a causa di un black out in sala operatoria nel gennaio del 2007 – ha segnato per me un momento importante per dare un senso autentico a questo mestiere. Ricordo l’abbraccio dei genitori e la commozione reciproca. Lì ho capito che al di là della trattazione mediatica del fatto – data dall’informazione sul caso, sul processo – in quel momento noi dobbiamo andare anche oltre. C’è una componente umana che ti porta nel lavoro che fai a trasmettere sentimenti, emozioni e memoria. Noi facciamo memoria. E quando i genitori di Federica mi dissero che ero stato in grado di fare memoria – indagando e raccontando i fatti, il dolore, il senso di ingiustizia – ecco, in quel momento sono stato fiero del mio mestiere di giornalista. I momenti difficili ci sono tutti i giorni. L’ultimo è stata la condanna che ho avuto per aver diffamato un soggetto che – se guardiamo le sentenze passate in giudicato – è quantomeno gravitante in contesti mafiosi. Al dovere del giornalista di riportare informazioni di acclarato interesse pubblico, si oppone una sentenza che vuole il risarcimento ad un soggetto su cui pesano condanne per importanti reati. Allora – mi chiedo – ammesso e non concesso che io l’abbia diffamato, il trattamento sanzionatorio attraverso cui una Corte d’Appello mi impone di risarcire questo soggetto è identico a quello nei confronti di un soggetto incensurato? L’onorabilità di un uomo per bene è identica a quella di un pregiudicato per armi e lesioni?

Già, perché sono tante difficoltà dell’essere un cronista in Calabria

In Calabria fare informazione è quasi impossibile, informazione libera intendo. Perché quando lo fai ti rendi conto che tutto ciò che vai a toccare, finisce col toccare degli interessi. Allora, qualunque cosa tu scriva, ti fai la domanda: “E dopo che succede?”, e puntualmente vieni assediato. Perché da noi in qualche modo tutti i poteri sono collegati. Io mi sono ritrovato ad avere seri problemi con politici, magistrati, imprenditori e mafiosi. Seri problemi ovunque, perché purtroppo il nostro ambiente è questo: senza generalizzare, è ovvio, ma c’è il magistrato che se non gradisce il modo in cui tratti l’argomento te la fa pagare, ne ha il potere; c’è l’imprenditore che decide, se qualcosa non gli piace in un articolo, di ritirare la pubblicità mettendo in ginocchio il giornale; e c’è il mafioso che ti minaccia. E’ chiaro che lavorare in queste condizioni è molto difficile ed io, in vent’anni di mestiere, l’ho potuto constatare. Che il problema più grande siano le ritorsioni mafiose però è falso: la mafia c’è ed è una concausa, dal mio punto di vista, anche minore. Il mafioso ti manda la cartuccia per posta, ti minaccia, il più spavaldo si fa pure vedere: te lo dice in faccia. Però tu lo vedi, sai con chi hai a che fare. Quando invece ti ritrovi in altri tipi di situazioni in cui ti si chiede di rispondere ad altre logiche – e di trattare, magari, in un certo modo, diciamo “più leggero”, intercettazioni di politici che potrebbero compromettere il giornale – dici no, ma ne paghi le conseguenze. Perché in quel momento più che difendere la tua tesi, il buon nome della tua firma, il tuo lavoro, la tua integrità, le tue fonti… se un direttore di giornale ti toglie l’articolo: che altro puoi fare?

Categoria, quella del giornalista, bistrattata a livello economico; impegnata in una lotta costante tra la sopravvivenza e la dignità di un lavoro onesto, troppo spesso sottoposto a ricatti di vario genere. La vicenda di Alessandro Bozzo né è un esempio: morto suicida nel marzo del 2013, aveva subìto imposizioni, tramite minaccia, di rinunciare ai benefici di un contratto di lavoro a tempo indeterminato come condizione per continuare a lavorare nel giornale ‘Calabria Ora’. Proprio per il reato di violenza privata nei confronti del cronista calabrese, l’editore Piero Citrigno è stato condannato a quattro mesi di reclusione dal giudice Francesca De Vuono del Tribunale di Cosenza. Vicenda giudiziaria non ancora conclusa – la Procura infatti, tramite ricorso, ha chiesto una pena più aspra per Citrigno – ma che rappresenta lo specchio di una realtà purtroppo viva…

C’è un problema serio che riguarda la nostra categoria: siamo tanti e, a costo di sembrare arrogante, direi che siamo troppi. Quindi, alcuni editori anziché investire sulla qualità delle persone, preferiscono puntare sulla quantità ed elargiscono stipendi da fame. Non puntano su quei pochi giornalisti bravi e appassionati, da far crescere e su cui investire. Danno, ai giornalisti, trattamenti che sono inversamente proporzionali al loro compenso. E questo era esattamente ciò che accadeva all’epoca di Citrigno a Calabria Ora: bravissimi e continuamente elogiati quelli che guadagnavano al massimo duecento euro; quando invece avevi un contratto, una posizione di un certo prestigio all’interno del giornale – e qui prendo in prestito le parole di Francesco Graziadio, all’epoca dei fatti caporedattore di Calabria Ora – “da te voleva pure il sangue e ti trattava come una pezza”. All’epoca la situazione era questa. Un organico enorme, con alcuni giornalisti non allineati alle regole della deontologia e del buon senso. C’erano poi giornalisti con una certa rigidità mentale, figlia del rispetto per questo lavoro, del suo grande valore sociale se fatto con onestà, coraggio, credibilità. Alessandro era uno di questi: un professionista che per provare a piegarlo bisognava metterlo in ginocchio. Ma Alessandro, comunque, non si piegava. Ed è stato vessato, come tanti di noi in quella situazione. Si era arrivati veramente alla disperazione e Alessandro, amico e collega indimenticato, purtroppo è crollato.

La tua storia racconta un percorso spesso in salita, tra querele, richieste di risarcimento e vicende giudiziarie che ti hanno visto coinvolto. Oggi, prevale il senso di giustizia o il suo contrario?

Parlerò in maniera del tutto chiara: alla luce di quello che ho vissuto io, preferisco un attentato ad un’ingiustizia subìta. E ingiustizia è la parola giusta, se sei sottoposto a calvari giudiziari infiniti; assoluzioni di primo grado, ribaltate in appello, con la cProcura Generale della Corte di Cassazione che chiede l’annullamento della condanna e poi la Cassazione che invece quella condanna te la conferma. Ripeto: sembrerò pazzo, ma avrei preferito un’intimidazione. Perché quello che si è consumato nei miei confronti è un attentato giudiziario vero e proprio. Allora, se io so che pubblicare il contenuto di un’ordinanza, mi viene a costare così tanto: mi conviene farlo? E se anche fossi stato assolto – come è successo in tantissime altre occasioni – e visto il calvario giudiziario che ho subìto: quanto mi è costato dovermi difendere per dimostrare che sono sempre stato corretto? Il problema è principalmente economico: difendersi, purtroppo, costa caro. E il senso di giustizia, a volte, è davvero difficile da trovare.

Per lavoro entri nelle aule giudiziarie, racconti il lato oscuro della Calabria. Per questo sei entrato nel mirino dei clan che – tra buste con proiettili recapitate a Natale e minacce di morte – ti hanno fatto notare il loro disappunto

Ci sono tanti colleghi che sono nel mirino di persone che non vengono intercettate perché sono più furbi e magari parlano dei loro progetti criminali su una spiaggia in riva al mare o sperduti in mezzo ai boschi. E ci sono giornalisti che quotidianamente rischiano la pelle, come me o più di me. Allora non siamo eroi. Non è una minaccia a far sì che un giornalista sia considerato un bravo giornalista. Lo è per quello che pubblica, per quello che fa, per l’etica che ha, per come prova a resistere. Lo dobbiamo mettere in conto, purtroppo, perché la Calabria è anche questo. Non siamo eroi, ripeto, e non lo vogliamo diventare. Tantomeno martiri. Facciamo tutti i giorni i conti con la paura, con le difficoltà cui vanno incontro i nostri cari. Ma è il nostro lavoro, e non conosco un altro modo per farlo.

E poi arriva il premio antimafia e il giornalista si trova con un etichetta addosso…

Mi dispiace, ma per me oggi i cosiddetti “premi antimafia” – così come questo bisogno forzato di dover specificare a tutti i costi che si è “antimafia”- sono solo fesserie ed io ho iniziato a rifiutarli . C’è stata una fase in cui è stato bello avere un riconoscimento da associazioni realmente impegnate, sempre in prima linea. Adesso basta: torniamo a fare il nostro mestiere. Molti hanno costruito il loro prestigio professionale – la loro carriera quasi – cavalcando quest’onda. Ma per definizione il giornalismo deve dire la verità e la verità non ha bisogno di essere etichettata come “antimafia”, la verità è di per sé “antimafia”: a me le cose pleonastiche non piacciono. Un giornalista serio, un giornalista vero, è di per sé antimafia. Gli unici con cui possiamo usare questo termine sono i giudici che per competenza funzionale se ne occupano. Allora diciamo “antimafia” per distinguerli su un piano squisitamente tecnico da coloro i quali si occupano di materie di carattere ordinario. Quindi c’è – ed è giusto così – il pm antimafia. Le altre categorie non hanno bisogno – non dovrebbero averne quantomeno – di etichette. Sta nell’etica personale la parola “antimafia”. E per chi fa questo meraviglioso mestiere dovrebbe essere una caratteristica innata. Ci sono giornalisti che veramente peccano di divismo antimafia. A me francamente tutto ciò fa ribrezzo.

Qualcuno dice che i peggiori nemici dei giornalisti, sono gli altri giornalisti…

Purtroppo è così: la nostra categoria, non solo in Calabria, difficilmente riesce a fare rete. E quando si dice che i peggiori nemici dei giornalisti, sono i giornalisti stessi, è vero. Dovremmo tornare all’equilibrio, alla sobrietà, alla responsabilità. Dovremmo essere meno protagonisti. Dovremmo dare la notizia, e non essere noi stessi la notizia. E dovremmo fare in modo di fare più rete tra di noi, perché quello che ci manca è proprio questo. Qui siamo sempre disponibili quando arriva il grande inviato da fuori, che sembra che ci possa aprire chissà quali porte. Quando poi ci ritroviamo a dover affrontare i nostri problemi, che sono i problemi della nostra terra, d’improvviso siamo l’un contro l’altro armati. Non riusciamo a fare rete, per questo diventiamo così vulnerabili, rispetto ad un mondo che con estrema facilità ci schiaccia.

In un contesto come il nostro, con le difficoltà di cui abbiamo parlato, cresce la sfiducia e il senso di solitudine a volte rende tutto più difficile

Il senso di solitudine più profondo l’ho provato quando ho capito che c’erano settori dello Stato che anziché pensare a svolgere i propri compiti nell’interesse del cittadino, pensavano solamente a tutelare la propria immagine dalle critiche di inefficienza che a loro venivano rivolte. In un periodo in cui la mia zona fu sporcata da un bagno di sangue terribile – con i morti ammazzati in pieno giorno, per strada, sulle spiagge – , io iniziai a scrivere che lo Stato si doveva svegliare. Allora lo Stato si arrabbiò e si arrabbiò con me, prendendo le mie parole come un’accusa, come dire: “Lo Stato sta dormendo”. Ti si delegittima, accusandoti di voler delegittimare. Allora ti ritrovi: da un lato la malavita che ti vuole fare la pelle; dall’altro una parte di Stato che le studia tutte per colpirti e delegittimarti. E in un paese come il nostro, con figure che hanno un potere enorme e giocano con la libertà e dignità delle persone, e altre bistrattate ed estremamente vulnerabili (come siamo noi giornalisti), secondo te: l’opinione pubblica a chi crede? Ci vuole un niente per distruggere la dignità, l’onore e il decoro di un giornalista. Per distruggerne la vita e la storia. Allora, sono questi i momenti in cui mi sento solo. Siamo soli e senza tutela. Che non ci vengano a parlare di libertà di stampa: altre fesserie. Non esiste la libertà di stampa e ancor meno esistono forze che la vogliono tutelare. Perché un giornalista libero può far saltare il Sistema e questo nessuno lo vuole.

Una terra che sembra persa. Con i “Fatti in diretta” – la trasmissione che porti avanti su LaC – entri nelle storie di una Calabria che soffre, ma che lotta e reagisce. È possibile un cambiamento?

Andremo verso un reale cambiamento quando i giovani si potranno affrancare dal bisogno, liberi di scegliere. E per giovani non intendo solamente gli adolescenti, su cui certamente bisognerebbe fare un investimento culturale importante. Mi riferisco alla fascia che và dai 30 ai 40. Quelli che sono diventati genitori e quelli che lo vorrebbero diventare. Quelli che si vogliono realizzare professionalmente e che si sono visti rubare tutto. Quelli che i vari ministri di turno si divertono a etichettare e prendere in giro. Quando questi – figli di una generazione dimenticata – saranno effettivamente affrancati dal bisogno, allora saremo liberi.

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