di Roberta Mazzuca – Non se ne sentiva parlare da un po’, di cultura, nella città di Cosenza, dove ieri 28 febbraio, nel Salone di Rappresentanza di Palazzo dei Bruzi, ha preso il via “Libri in Comune”, primo appuntamento di una stimolante rassegna ancora in divenire, con cui il Comune intende rilanciare in città le attività culturali ormai scarsamente presenti. “Libri in comune”, una denominazione che racchiude già nelle sue parole il senso di questa iniziativa: non soltanto appuntamenti che si terranno in parte, come quello avvenuto ieri, nella casa comunale, ma occasioni di incontro e riflessione “in comune” con tutta la città, con coloro che vorranno presentare i propri libri e quelli che vorranno, invece, usufruire di uno spazio dedicato alla lettura, alla cultura, ma soprattutto al dialogo e alla riflessione su tematiche importanti. Curata dalla consigliera delegata del Sindaco alla Cultura, Antonietta Cozza, la rassegna ha avuto inizio, infatti, con la presentazione del libro “La ribellione di Michele Albanese”, scritto dalla giornalista RAI per la Calabria, Gabriella d’Atri.
Il libro è edito da Castelvecchi, e appartiene alla collana “Sotto scorta”, che raccoglie storie e testimonianze di chi è costretto a una vita senza libertà, semplicemente per aver adempiuto al proprio dovere. Giornalisti, come Michele Albanese appunto, ma anche magistrati, attivisti, preti di strada, sindaci, imprenditori. In Italia sono circa 600 le persone costrette a vivere sotto scorta. Persone coraggiose, che hanno saputo ribellarsi a un sistema fatto di silenzio e paura, ma che proprio da quello stesso silenzio ricolmo di solitudine sono stati circondati quando sulle loro vicende si è spenta ogni luce. Di queste tematiche e di molto altro si è discusso durante l’incontro, che ha visto la partecipazione, oltre all’autrice e al protagonista delle vicende raccontate, anche quella di Domenico Frammartino, Presidente Commissione Cultura del comune di Cosenza, Chiara Penna, avvocato e Presidente Commissione Istruzione e Legalità, Amedeo Pingitore, psicologo e psicoterapeuta, Aldo Trecroci, consigliere comunale delegato all’Istruzione, e Francesco Graziadio, giornalista e consigliere comunale.
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IN TERRA DI ‘NDRANGHETA EROE È COLUI CHE COMPIE IL PROPRIO DOVERE
Dopo un’iniziale dedica alla terribile situazione vissuta dal popolo ucraino, che ha richiamato il tema dei diritti negati, a prendere la parola è stato proprio Domenico Frammartino: “La parte che più mi ha colpito e mi ha portato ad intervenire questa sera è quella in cui incontri i ragazzi delle scuole, quei ragazzi ti chiamano “EROE”, e tu respingi questo termine. Sì, hai fatto il tuo dovere, ma farlo in questa terra, ahimè, non è cosa semplice”. Già, perché Michele Albanese, 61 anni, redattore del “Quotidiano del Sud” e collaboratore dell’Agenzia ANSA e dell’Espresso, è bersaglio della ‘Ndrangheta da ben 7 anni, avendo descritto, in moltissimi articoli, assetti organizzativi, organigrammi e capacità espansiva a livello nazionale ed internazionale di quella che non è semplice criminalità organizzata, ma un fenomeno infinitamente più vasto e sviluppato, di cui oggi troppo spesso si tace. “Quando mi chiedono cos’è la mafia – afferma Albanese – io rispondo: la mafia è un pezzo di tutto, è un qualcosa di globale che controlla il territorio in maniera asfissiante”. Straordinario conoscitore e cronista della situazione delle cosche in Calabria e nella provincia di Reggio, in particolare nella Piana di Gioia Tauro, è proprio la sua competenza e il suo senso del dovere e del rispetto del proprio mestiere che lo hanno reso inviso alla ‘Ndrangheta.
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17 luglio 2014: Albanese si trova a Sinopoli, quando arriva una telefonata della Questura di Reggio, e il capo della Squadra mobile, Gennaro Semeraro, gli comunica qualcosa di terribile. Oggetto della comunicazione l’intercettazione del discorso fra due uomini di una cosca potentissima, i quali parlavano di una bomba da confezionare e piazzare sotto l’auto di un giornalista. “Quel giornalista ero io, volevano piazzare una bomba sotto la mia auto, ma nel sentire quelle parole dentro di me la bomba era già esplosa” – afferma Albanese. Così, la Prefettura reggina, ritenendo sussistente una condizione di significativo pericolo, gli assegna una scorta, che da allora lo segue in tutti i suoi spostamenti, e un’automobile blindata. Questa, a grandi linee, la storia di Michele Albanese, raccontata con grande verità e dovizia di particolari nel libro di Gabriella d’Atri, e che rappresenta un esempio e una fonte di ispirazione per tutte le nuove generazioni di giornalisti che in questa terra si apprestano a muovere i loro primi passi, e che Albanese incoraggia a insistere nel ricercare sempre la verità dei fatti: “La notizia non ha mai una sola faccia, ne ha tante – afferma – sta a noi giornalisti scovarle e raccontarle. È una responsabilità nei confronti dei nostri lettori, del nostro lavoro e della nostra terra”.
Il tema dell’eroe che, inevitabilmente, porta con sé anche quello della solitudine, dell’indifferenza, e della delegittimazione che spesso viene riservata a chi lotta contro le mafie. La stessa solitudine in cui si è ritrovato Albanese, costretto a una vita privata della sua naturale libertà, e privo anche della solidarietà, degli stimoli e degli incoraggiamenti che a lui avrebbero dovuto essere riservati. “Perché la ‘Ndrangheta vuole ucciderti?” – “Vengo messo sotto scorta – risponde – perché ci fu un’operazione che portò a molti arresti in un comune della Piana, famoso perché luogo in cui opera una delle famiglie ‘ndranghetiste più sanguinarie. Nonostante gli arresti, c’era però un latitante importante, da 17 anni, che seminava paura e terrore, ed ero l’unico che si prefissò di far passare il messaggio della necessità di catturarlo. Così, voleva farmi saltare in aria. In quello stesso paese, i preti ce l’avevano con me, gli ‘ndranghetisti ce l’avevano con me, il sindaco ce l’aveva con me. Ce l’avevano con me per aver fatto semplicemente il mio lavoro”.
“E perché, Gabriella, hai deciso di raccontare le vite sotto scorta?” – “Come giornalisti – risponde l’autrice – abbiamo il dovere di sostenere queste persone. Attraversare le loro vicende significa mantenere la luce su queste tematiche e su questi territori, e dare voce al grido di chi protesta. Se noi giornalisti consentiamo che su queste storie cada il silenzio, allora vincono loro. E in questo caso, il silenzio sarebbe anche peggio della violenza stessa”. L’autrice fa riferimento, a questo proposito, al concetto di “scorta mediatica” come un ulteriore strumento di difesa, per amplificare le inchieste di chi porta avanti battaglie importanti e pericolose come queste, e non limitarsi ad azioni di solidarietà, ma scendere in campo al fianco di chi lotta.
Ancora, il dibattito è proseguito attraversando molte e numerose questioni: il problema della cultura che sottostà alla logica ‘Ndranghetista, una cultura dell’illegalità, della violenza, del silenzio, che scorre insidiosa creando sfiducia e rassegnazione. Si è parlato dell’importanza di educare le nuove generazioni a una cultura della legalità e dei valori, e di quanto la scuola debba avere un ruolo determinante in questo processo. Si è discusso anche delle nuove generazioni di ‘ndranghetisti, della loro pericolosità ma anche della responsabilità nei loro confronti. Si è parlato di un sistema penitenziario che non funziona e dovrebbe essere rivisitato, perché oggi “il carcere è un luogo dove la criminalità continua a formarsi – dice Chiara Penna. “La soluzione non è inasprire le pene, il problema è culturale, e necessita di una rinascita culturale”. Ancora, l’attenta analisi di Albanese sulla potenza di un sistema come quello ‘ndranghetista, con la creazione della “Santa”, nata negli anni 70 con l’esigenza di conferire con uomini non appartenenti alla ‘Ndrangheta per poter meglio gestire gli affari illeciti e avere accesso al potere. Un colloquio che sarebbe potuto durare ore e ore e attraversare tematiche e riflessioni infinite, e che ha rappresentato un’occasione piena di spunti da esaminare. “Cosa dice ai ragazzi nelle scuole?” – “Gli dico – risponde Albanese in chiusura – che occorre avere un po’ di rabbia sociale e civile, appassionarsi alla propria terra, combattere per essa. Se oggi i nostri figli vogliono andare via, è solo colpa nostra, della nostra generazione” – conclude.
Un libro, quindi, che è un viaggio non solo nella storia di un giornalista, nella storia della nostra terra, ma soprattutto è il viaggio nell’anima e nelle emozioni di un eroe “che ha compiuto solo il suo dovere”.