di Mariagrazia Costantino* – L’incontro tra Trump e Putin in Alaska si è prevedibilmente risolto in un nulla di fatto. Nemmeno un piccolo fuori programma con cavalcata a torso nudo dell’orso per Putin.
Del resto i film western insegnano che quando due fuorilegge si incontrano ci sono solo due esiti possibili: o si eliminano o si mettono d’accordo. E Putin e Trump si sono incontrati già diverse volte (e si sono messi d’accordo da tempo). Adesso tocca all’Europa far sentire la propria voce, sperando che il faccia a faccia tra Zelensky e Trump non ripeta il miserrimo (per gli USA) copione dell’ultima volta.
Ho notato che molte persone “comuni” e non, ovvero quelle che incontriamo ogni giorno ma anche quelle che vediamo alla TV, di cui sentiamo parlare alla radio o leggiamo sui giornali, sembrano avere una certa reticenza a criticare le persone di potere: come se la loro critica li esponesse a un rischio concreto. Rischio che vale appunto solo per un’esigua percentuale di personaggi pubblici tra cui il Presidente Mattarella, che più di una volta ha attirato le attenzioni (e le ire) dei ministri russi. Mattarella è siciliano, con i mafiosi ha già avuto a che fare e non li teme: i mafiosi – forse con qualche aiutino dello Stato sommerso – gli devono un fratello. Un debito non da poco.
Invece nella Reggio Calabria che pullula di coraggiosi cuor di leone con il cuore e gli artigli degli altri (ma in generale in tutta Italia, dove analfabetismo funzionale e bancarotta morale stanno diventando i nuovi tratti nazionali), molti si affannano a ripetere con un certo compiaciuto cinismo che “l’Ucraina non può vincere.” Peccato non considerino un trascurabile dettaglio: l’Ucraina ha già vinto, visto che a pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa tutti la davano per spacciata; come davano per spacciato il suo coraggioso Presidente. Occorre anche ricordare che l’Ucraina è stata trascinata in questo conflitto suo malgrado, visto che aveva già pagato nel 1994 la sua sicurezza, indipendenza e integrità territoriale firmando il Memorandum di Budapest, con il quale cedeva alla Federazione Russa i suoi armamenti nucleari, nell’ambito del trattato i non proliferazione nucleare: accordi bellamente calpestati da Putin e ignorati anche dalle potenze cofirmatarie. Col senno di poi si può dire sia stata una grave ingenuità – una delle tante – aspettarsi da Putin il rispetto di qualsivoglia accordo: la Russia (ovvero la mafia con il paese intorno) non rispetta nessun tipo di accordo perché non ritiene problematico mentire. Ed è per questo motivo che appare sempre in vantaggio: proprio come i bugiardi patologici, “gioca sporco” e non rispetta le regole.
Eppure, nella città che del mentire ha fatto un’arte, molti si ostinano a ripetere che “bisogna trattare con Putin”, “occorre sedersi a un tavolo e discutere seriamente di pace.” Come se Putin la volesse davvero questa pace. D’altronde, dopo essere stati miseramente smentiti e aver constatato che no, la superiorità militare della Russia non era né scontata né così schiacciante, devono trovare qualche altro argomento fantoccio per non essere ulteriormente sbugiardati.
Come al solito manca serietà e manca solidarietà; si ragiona di conflitti in cui muoiono ogni giorno decine o centinaia di civili (solo ucraini peraltro) come se si trattasse di una partita di calcio. Come se avere ragione avesse la minima importanza di fronte a intere famiglie massacrate dai droni russi o minori rapiti per essere educati a odiare il loro paese d’origine, e forse un giorno invaderlo. Come prima di loro altri zombie mandati a morire.
Ma per una volta voglio ignorare i cattivi e interessarmi ai buoni, che dovrebbero stare un po’ più a cuore a tutti.
Voglio parlare di un bambino ucraino che ho conosciuto qui: si chiama Mykola, ha dieci anni e deve iniziare la prima media.
Quando l’ho incontrato era con sua madre, un’amica della madre e un cane. Seduti sulla panchina di un parchetto, se così si può definire quella piazzola di erba secca ricoperta di rifiuti.
Mykola e le due donne all’inizio erano solo voci concitate e lui giocava con il cane in modo un po’ aggressivo. Non sto scrivendo tutto questo per far nascere un giudizio, ma per bloccarlo: quella è l’apparenza, la superficie delle cose che produce impressioni ingannevoli. Sbagliate. Mi sono avvicinata perché volevo dirgli di fare piano col cane. Lui ha capito che avevo frainteso, che mi stavo basando sull’apparenza, e si è rivolto a me nel modo più amabile e disarmante. Mi ha detto (in un italiano perfetto) “io amo gli animali sai? In Ucraina avevamo un cane che ballava.”
Mykola è di Melitopol, adagiata sul Mar Nero, nell’oblast di Zaporizhzhia che fa da cuscinetto tra la Crimea e le regioni meridionali: motivo per cui Putin la voleva a tutti i costi. Chissà se ha la stessa radice di Melito, da cui dista 3.580 km, e se c’entra qualcosa con il miele. Doveva essere dolce la vita lì prima del marzo 2022, quando la città è stata invasa e bombardata. Un posto come un altro, un posto sfortunato dove nascere e vivere.
A Melitopol prima dell’invasione c’erano circa 160 mila abitanti. Oggi ne sono rimasti 60 mila, meno della metà: la maggior parte cerca di resistere e mal tollera l’occupazione russa. Molti sono andati via, compresi Mykola e la sua famiglia. Lui rischiava di essere rapito e portato chissà dove, da qualche parte in Russia, con un’altra famiglia. Un altro mondo. Un altro nome. Invece per fortuna due anni fa è venuto qui, dove ha ancora il suo nome e il suo bel sorriso.
Non è facile trovare dati sulla presenza ucraina in Calabria, in particolare a Reggio Calabria. I numeri riportati sono contrastanti ma secondo la piattaforma web governativa integrazionemigranti, nel 2023 la popolazione ucraina qui ammontava a 6.342 (pari al 6,53%), con un incremento percentuale del 16,62% rispetto alla rilevazione all’1 gennaio 2022. È presumibile dunque che negli ultimi due anni abbia raggiunto se non superato le 8000 unità. Un piccolo villaggio.
Non ho avuto coraggio di chiedere a Mykola dove sia suo padre. So solo che il cane che ballava è morto. Tanta altra gente che conoscevano, compresi alcuni compagni di scuola, è morta. La madre ha un fratello che vive in Russia con cui non parla più. “Non capisce”, ha detto in un italiano povero e dignitoso come loro. Piegati dai lutti ma non spezzati.
A Mykola piace la matematica. Vorrebbe solo che la guerra finisse per poter tornare nel suo paese, l’Ucraina, che non è una provincia ribelle della Russia, ma uno stato riconosciuto da tutti. Russia compresa.
Dolce Mykola, piccolo profugo troppo saggio per la sua età ma fiero di andare (bene) a scuola e di parlare (bene) l’italiano. Fiero di essere vivo e di chiamarsi ancora Mykola.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica