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Welcome to (my) meraviglia: Labubu e Temuconomy nell’era della mafia diffusa

di Mariagrazia Costantino* – Garry Kasparov, campione di scacchi russo da lungo tempo dissidente (e per questo in esilio), ha scritto che ogni paese ha la sua mafia e che, nel caso della Russia, ci sono mafie che hanno il loro paese.

La mafia è l’ambizione di invadere e conquistare. Di colonizzare per il puro gusto di farlo. Perché il parassita, infimo essere senza qualità degne di nota, ha bisogno di un corpo esterno da “abitare” per potersi sentire grande. O semplicemente vivo. L’ultima frontiera di questa colonizzazione sono le menti. O se preferite i cuori, che vanno tanto di moda oggi che la gente sembra aver perso il proprio.

Mi rendo conto che parlare di mafia così rischia di banalizzarla, ma a me sembra pericoloso anche il contrario, cioè circoscriverla troppo, farla restare un fenomeno etno-antropologico, un aspetto (del folklore?) locale. La mafia è sì un fenomeno criminale legato ai territori, ma ormai la sua diffusione endemica e incontrollabile dice qualcos’altro: ci dice che è una modalità del pensiero e dell’esistere. È l’evoluzione in senso imprenditoriale (e tecnologico) dell’atavica propensione umana a corrompere e a farsi corrompere. Per come la vedo io, è opportuno abituarsi a pensare che la mafia sia ovunque, o quantomeno laddove non ce l’aspettiamo. La mafia è nelle gallerie d’arte, negli aeroporti, nei supermercati, nei parlamenti (ovviamente). Forse la cocaina e le droghe altro non sono altro che sintesi di mafia. Mafia in polvere. Di certo ugualmente endemiche. Come la mafia sfuggenti e basate sulla capacità di nascondersi e di camuffarsi, per ovvie ragioni. Sono patologie ad alto funzionamento che stanno diventano la norma. E stanno anche condizionando il modo di concepire i rapporti: quelli tra persone come quelli tra nazioni.

Il punto non è cosa sia mafia e cosa no. Ma come la mafia contamini ciò che non lo è (mafia), rendendolo più simile a sé.

È un po’ come il concetto alla moda, ma spaventoso, di albergo diffuso – o “B&B diffuso”, nella versione povery. Immaginate un paesello microscopico dove un appartamento su due è stato convertito a “uso foresteria”: da fuori non cambia molto, ma il paese rimane solo come guscio, accattivante scenografia o peggio ancora pittoresco sfondo “instagrammabile” delle vacanze di qualche famiglia spagnola o di coppie tedesche in cerca della vera esperienza italiana. Salvo non trovarla da nessuna parte perché gli italiani sono altrove. Probabilmente in Spagna o in Germania.

Alla mafia conviene che le città del Sud si svuotino: è chiaro a tutti che la materia inerte si controlla meglio. Il fatto che per il Governo Meloni – e per quelli che lo hanno preceduto – non sia questo il maggiore problema italiano, ovvero la fuga di cervelli (e di mani, braccia, gambe e schiene), la dice lunga sulla scarsa propensione della politica italiana a mettere veramente i bastoni fra le ruote alla mafia. Che va veloce come un treno: aiutata da bitcoin e criptovalute, darkweb e E2E. Sono mafia anche le economie delle app e delle piattaforme, quando non si pongono come alternativa ma come monopolio. Perché la verità (una delle tante) è che la società liquida, prodotto a sua volta di un’economia ubiqua che non si trova materialmente da nessuna parte perché è ovunque, è una grande alleata delle mafie e fornisce loro l’apparato logistico e tecnologico per diffondersi meglio e in modo capillare. Paul Virilio, un filosofo francese più interessante e meno citato di Foucault, ha descritto nei minimi dettagli il folgorante sodalizio tra la tecnologia ottica applicata alla guerra e la comunicazione. Per Virilio, più si cerca simultaneità e visibilità (del messaggio) più si pongono le condizioni per creare sacche di opacità dove agire del tutto indisturbati (o se preferite un’altra metafora, i coni d’ombra creati dai fari abbaglianti). Tutta questa luce, reale e metaforica (pensate alle immagini usate per indicare la fama o l’importanza di qualcuno/qualcosa: essere sotto i riflettori, le luci della ribalta… ) si presta a lasciare tanto, troppo in ombra. E si sa che nell’ombra strisciano cose inquietanti. Il punto è che censurando l’invisibile gli abbiamo consentito di nascondersi, e quindi proteggersi meglio.

La mafia è come la fede in Dio, però a differenza del dio un po’ sfuggente dei fedeli, questo dio ti premierà (o ti risparmierà, a seconda dei punti di vista) se farai il bravo. Per questo la mafia sarà sempre al di sopra della Chiesa e della famiglia nei territori che controlla: perché offre soluzioni pratiche. Ma il vero colpo di genio imprenditoriale sta nella sua capacità di offrire soluzioni a problemi che crea lei stessa. Approfittando della facilità con cui, nelle nostre mani, il legame causa-effetto si spezza, lasciando solo frammenti sparpagliati e sconnessi. Perché così è la natura umana: tende a dimenticare e rimuovere, perdendo la propria storia in cambio di un po’ di (finta) serenità. Come una specie di banca che dà l’illusione della libera scelta, la mafia si prende i risparmi dei clienti e li restituisce un po’ alla volta: il cliente pensa siano gli stessi, si illude che possano essere persino cresciuti, ma in realtà sono solo snaturati. Trasformati in tutt’altra cosa. In qualcosa di tossico.

Attraverso la sua arma più potente, la propaganda, la mafia mette una lente deformante davanti agli occhi. Proprio come fanno Russia e Iran (e per certi aspetti anche la Cina): mafie a tutti gli effetti, potentissime e fondate sull’atavico monopolio del potere che coopta chiunque: un potere feroce, basato sulla sottomissione e la distruzione del dissenso sul nascere. No, non mi convince l’idea che esistano solo mafie storiche e territoriali: ci sono quelle e poi ci sono forme ambigue e ibride, che gestiscono o coincidono con il potere politico centrale e periferico. Questo tipo di mafia si presenta in abito scuro e con un’aura di eleganza. Profumo di viole e mondanità… ma c’è ben altro al di sotto della superficie specchiata.

Da un certo punto di vista la mafia vera sono i figli dei mafiosi – sia i figli metaforici che quelli biologici – perché sono il suo volto presentabile, per questo il più ingannevole. La figlia di Putin (sua fotocopia) che lavora in una galleria d’arte e mette quotidianamente le mani su quello che dovrebbe essere l’antidoto al male ma che, essendo soggetto alle leggi del mercato, è come tutto intrinsecamente corruttibile. No, non sto dicendo che la ragazza andrebbe arrestata o cacciata per le colpe del padre, ma nemmeno premiata (che diamine).

La Duma di Stato, con la sua propaganda e i suoi soldi, ha hackerato le menti deboli di tanti creduloni; per non parlare di quelli che ha corrotto a suon di mazzette. La mafia di Hamas, sovvenzionata dal Qatar e istruita (nonché armata) dall’Iran sciita, ha fatto lo stesso con giovani e meno giovani occidentali in cerca di distrazioni e di un facile sbocco per la rabbia repressa. L’Iran impicca con grande efficienza alle gru la sua meglio gioventù, solo perché osa esprimere pareri non in linea con quelli degli Ayatollah: gli stessi che ordinano di accecare e internare le donne per una ciocca di capelli fuori posto e che prima di ucciderle le fanno stuprare se molto giovani (le vergini non si possono uccidere e in ogni caso andrebbero in paradiso, un’evenienza da evitare a tutti i costi).

È vero che se tutto è mafia niente lo è. Ma è anche vero che le etichette troppo specifiche fanno perdere di vista la natura più che compatibile e volte perfettamente sovrapponibile di queste manifestazioni violente e corrotte del potere. In altre parole, forse dovremmo abituarci a pensare che la mafia non sia “solo” ma “anche.” Mafia è lo strapotere di pochi davanti davanti all’impotenza dei più. È mafia la cultura del “si fa ma non si dice”; il professionista che difende il collega per spirito di corporazione, perché un giorno potrebbe aver bisogno anche lui di una cortesia, del favore ricambiato: poco importa se quel collega è sotto accusa per motivi validi, magari perché ha commesso gravi errori. L’etica non entra mai in queste questioni: è solo un fastidioso ostacolo frapposto fra noi, anzi fra loro e le loro ambizioni. La mafia letterale e quella allargata poggiano sull’economia transazionale e a sua volta la rinforzano e legittimano: l’economia della mano che lava l’altra, del riciclaggio di quella valuta pregiatissima che sono i favori (intere carriere e imperi costruiti sull’abilità strategica e levantina di far fruttare favori e il credito legato a essi). All’interno di un simile sistema, merito e capacità – proprio come l’etica – non possono che diventare superflui: non conta quello che sai fare o come lo fai, ma il vantaggio che io posso ricavare dall’uso che faccio di te. Si passa dal valore intrinseco al valore d’uso. La Labubu come simbolo di quello che noi tutti siamo per gli altri: brutti pupazzetti da attaccare alle borse e da sfoggiare.

In questa fase inedita della storia umana, l’economia delle informazioni, un po’ come quella della fast fashion, ha generato un circolo vizioso per la sopravvivenza del quale è fondamentale inondare il mercato di tonnellate di prodotto. Così se l’antica legge della domanda e dell’offerta vale ancora, la novità è che adesso è l’offerta a creare la domanda. Questo è anche il meccanismo della dipendenza: non cerchiamo ciò di cui abbiamo bisogno, ma quello che pensiamo di volere perché ne siamo dipendenti. Parafrasando Mick (Jagger), you must always get what you want

Chi approfitta di questo stato cronicizzato di dipendenza fisica e psicologica? Come sempre le mafie, che conoscono e sfruttano la debolezza dell’essere umano, la paura dell’abbandono e il desiderio di essere parte di qualcosa. È proprio questo desiderio, anzi questo bisogno, che si trova alla base della mafia jihadista e terrorista. La mafia di Hamas che rifiuta gli accordi di tregua con Israele perché non vuole cedere la gestione degli aiuti umanitari: quelli che dovrebbero essere gratuiti ma che Hamas, da vera organizzazione mafiosa qual è, vuol fare pagare per ricavarne profitto. Come d’altra parte fa con i corpi e le teste degli ostaggi israeliani. L’ultima storia dell’orrore emersa è quella del povero Adir Tahar, ragazzo diciannovenne la cui testa è stata conservata da affiliati di Hamas nel tentativo di poterla vendere. Orripilante e tribale bottino di guerra trasformato in merce di scambio. E come la Palestina – geniale prodotto messo a punto da Yasser Arafat – fa da decenni con il fiorente business gestito o coadiuvato dalle varie agenzie “umanitarie” più o meno conniventi. Sì perché quello che contraddistingue le mafie è il loro senso degli affari, infallibile e spietato. Più forte di qualsiasi cosa. Irriducibile (quando non hai un’anima ti devi pure aggrappare a qualcosa).

Alla fine è sempre un problema di ego. Tutto ciò che di sporco e vecchio si ha finisce lì: se non si provvede a riconoscerlo per quello che è, e a buttarlo in tempo, diventerà così grande da inglobare chi lo lascia fare. Certe persone sono intere discariche. E intere discariche sono meglio di certe persone. Lo stesso vale per famiglie e paesi, popolati e governati da fetidi egoismi.

Se ci abituassimo a pensare a Putin, ad Ali Khamenei e ai capi di Hamas per quello che sono – potenti mafiosi – ci potremmo forse risparmiare tutti quegli oziosi dilemmi morali che derivano dalla deprecabile tendenza di certi cristiani (bianchi) a sentirsi meglio degli altri e di conseguenza a vedere gli altri come innocui oggetti per l’esercizio della propria (fasulla) compassione.

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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