“L’indifferenza è il peso morto della storia” - Antonio Gramsci
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Fiori nel letame

di Mariagrazia Costantino* – Io ci provo a illudermi che questo sia un posto normale. Ci provo a dimenticare che razza di eterotopia sia Reggio Calabria. Michel Foucault ha coniato questo termine, insieme a quello analogo di “eterocronia”, per indicare luoghi separati dalla vita civile per motivi svariati, ma sempre comunque luoghi dell’alterità. A volte dell’aberrazione. Per intenderci, il carcere è l’eterotopia per eccellenza, ma lo sono anche ospedali – compresi i cosiddetti “manicomi” chiusi per fortuna da tempo – e scuole. I luoghi dell’educazione, della punizione, della cura e della “normalizzazione.” Laddove “normalità” è un concetto molto labile e umorale, che suggerisce l’esercizio del controllo e l’applicazione della disciplina a scopo punitivo, curativo o entrambi (cos’è la punizione se non una cura nell’intenzione di chi la esercita?).

Nella provincia di Reggio Calabria l’autorità che esercita il controllo e impartisce cura e punizione non è lo Stato coercitivo come in Foucault (magari lo fosse), ma la criminalità organizzata che gestisce tutto e che si impone, a volte sovrapponendosi, alla Legge dello Stato. Forte della sua rete di parentele, amicizie, connivenze. Aficionados o follower a vario titolo. “Scimmie volanti” che stanno sempre con il più forte. Con il più violento.

(Anche) stavolta si tratta di una brutta storia. Una storia del branco che delinque e di quello di scimmie che difende e “abilita.” Una storia di disonore percepito, e di indegnità esercitata e rivendicata. Storia che si ripete tristemente uguale a sé stessa. I membri del branco sono esseri (a)normali e normalmente anomali. Ammesso che la normalità esista, perché ormai la normalità è essere mostri. Soprattutto a Reggio Calabria e dintorni, dove i violenti pretendono l’impunità e agiscono come se questa gli fosse garantita. Salvo scoprire che fino a prova contraria Reggio Calabria si trova ancora in Italia, e l’Italia – cosa a quanto pare non scontata ­– ancora in Europa. L’Europa è un continente, ma anche un’entità sovranazionale che ha tra i suoi obiettivi quello di tutelare i diritti dell’individuo. L’individuo per forza di cose vulnerabile, perché solo. Ma anche integro nella sua solitudine. Cosa (l’integrità dell’individuo) che spaventa a morte i capibranco e il loro codazzo di scimmie ossequiose.

Quando il branco di orchi si scontra con la civiltà diventa ancora più violento: reagisce come il diavolo all’acquasanta… Avete presente l’Esorcista? Ecco, qualcosa del genere.

Il luogo, o meglio i luoghi, sono due piccoli centri nella Piana di Gioia Tauro. Quella delle olive minuscole nerissime e del famoso Porto che doveva fare di questa “ridente” cittadina la Rotterdam d’Italia. Quella di cui ogni tanto si parla per le tonnellate di cocaina nascoste nei container e fiutate dai cani antidroga.

In questi due paesi, Seminara e Oppido Mamertina, vivono due adolescenti che sono come tutte le adolescenti del mondo. O almeno ci provano: pensano ai vestiti, alla musica, ai primi amori e alle vacanze che non arrivano mai. Ma loro vivono a Seminara e a Oppido, luoghi dove a comandare e a dettare le regole del vivere (in)civile sono i clan. I clan formati da uomini e donne che sottomettono altri uomini, ma soprattutto le donne.

Queste ragazze, trattate come oggetti e non come persone, subiscono stupri per quasi due anni: dall’inizio del 2022 alla fine del 2023. Sembra che uno degli aguzzini fosse fidanzato con una di loro, ammesso si possa chiamare “fidanzato” chi si comporta così, da padrone che ha il diritto di vita e di morte sulla sua “proprietà umana”, usata come svago, per divertirsi e per fare divertire gli amici. Orchi violentatori che fanno circolare le immagini degli abusi e impongono alle vittime il silenzio, minacciando ritorsioni e violenze sulla famiglia, perché qui la famiglia è più importante del singolo individuo e questo gli orchi lo sanno bene, in virtù del loro istinto animalesco.

Poi succede qualcosa, e il torpore collettivo che avvolge i paesi come un maleficio viene spezzato: gli abusi emergono grazie a intercettazioni fatte nell’ambito di indagini sulle cosche locali, alle quali (chi l’avrebbe mai detto?!) i violentatori in questione sono affiliati. Le indagini portano a processi e i processi a condanne per sei di loro. Con la condanna degli stupratori inizia anche un altro calvario per le vittime e per le famiglie che, abbandonate dalle istituzioni del luogo – indifferenti, conniventi o entrambe le cose – si ritrovano braccate, circondate dalla violenza e dall’ostilità del paese che ha fatto quadrato intorno ai condannati. Intorni ai degni figli (e fratelli, cugini, compari) di una terra avvelenata e velenosa.

Una delle ragazze è costretta a lasciare il paese, per provare a guarire e per allontanarsi dall’atmosfera opprimente che si è creata intorno a lei e ai suoi familiari. A sua madre, oltre ad aver ripetutamente tagliato le ruote dell’auto, rivolgono minacce e insulti di ogni tipo; anche suo fratello, poco più che un bambino, è oggetto di insulti e volgarità. Seguendo un copione fin troppo prevedibile, si attiva il solito meccanismo di omertà, fedeltà al branco e intimidazione, che qui è la forma di comunicazione più efficace, funzionale al mantenimento dello status quo e di un’atmosfera di violenza latente. Violenza in potenza. Violenza che si tende a fraintendere e a sottovalutare per assuefazione.

Uno stupro è un’azione di incommensurabile violenza. Sebbene non paragonabile per gravità, anche l’insulto è espressione di violenza. Essere minacciati è una cosa che non si dimentica facilmente, e che rimane impressa nel cervello – letteralmente incisa. Quando si subisce violenza, sia essa un gesto o la minaccia che al gesto prelude, il corpo attiva una serie di reazioni chimiche che resteranno inscritte per sempre nel DNA: una risposta neurologica e ormonale che può indurre a lottare o fuggire, ma che spesso, in casi come questo, conduce all’immobilità. Il cervello va in tilt e il corpo si paralizza perché non riesce a decidere cosa fare. Il corpo asseconda la confusione della testa. E perché, vi chiederete voi, la testa è confusa? La confusione subentra spesso nei casi in cui la violenza sia perpetrata in ambienti conosciuti e familiari, dove si fa fatica a vederla per quello che è, ossia una brutale aggressione, e la si confonde per altro. A volte persino per amore e cura. Ma non è questo il caso.

Questa storiaccia, che non ha ancora trovato una vera conclusione e che difficilmente la troverà (almeno non una pienamente soddisfacente per le vittime), ha i contorni di una moderna Lettera Scarlatta, ma ricorda anche la trama della serie Them, in cui una famiglia afroamericana viene brutalmente braccata dai vicini nell’America razzista e benpensante degli anni Sessanta. Fiction e realtà si confondono e si mescolano: l’una rimanda all’altra ed entrambe puntano alla violenza insita nella società umana. La società di uomini violenti e di donne che li spalleggiano. Con la differenza che persino la Lettera Scarlatta, romanzo ottocentesco ambientato nella Boston quacchera e puritana del Seicento – epoca in cui si condannavano ancora le donne con l’accusa di stregoneria – lascia aperta la porta a una speranza: non un vero e proprio lieto fine, ma la possibilità di rifarsi una vita e una dignità “via dalla pazza folla” preda di violenti fanatismi.

In questo caso non si intravede alcun lieto fine: certo la realtà è più ambigua di un racconto, sicuramente meno coerente. La realtà è più crudele perché in essa le motivazioni dei personaggi sono deformate e snaturate dall’assenza di un unico narratore, e dalla compulsione umana alla menzogna. Ma soprattutto dalla mancanza di speranza: tutti sanno infatti che nonostante le condanne, non cambierà mai niente. Per cambiare ci vuole un gesto di ribellione collettiva che nessuno mai si azzarderà a promuovere da queste parti. Da un lato non gli conviene – e d’altra parte il Governo italiano non è in grado di fornire strumenti e valide alternative per attuare un vero cambiamento; dall’altro, hanno tutti troppa paura di perdere la paghetta delle cosche, quella che si dà ai bravi bambini per farli stare zitti e buoni. Banane date alle scimmie. A loro basta poco per essere paghe, ma evidentemente anche alle persone quando sono abituate così male, quando crescono senza senso di dignità vera e di rispetto per sé stesse e per gli altri, bensì solo con una fasulla e posticcia idea di onore.

In epoche e luoghi diversi, gli uomini si sono macchiati delle peggiori nefandezze nei confronti dei “fratelli”, soprattutto quando da questi si sono sentiti minacciati. Già perché se la violenza nasce dalla volontà attiva di danneggiare qualcuno cui non si riconosce dignità, un’altra sua manifestazione non meno spaventosa deriva dalla paura presente in ognuno di noi; dal sentirsi minacciati da qualcosa: in questo caso la forza di chi non segue le leggi del branco – funzionali alla sua sopravvivenza (sempre disfunzionale) e al potere dei suoi capi.

In storie come questa non mancano mai i sepolcri imbiancati in perfetto stile italo-democristiano, quelli che nel dubbio provano a non scontentare nessuno e a mettersi nei panni delle famiglie dei violentatori, improvvisando una compassione fasulla che è solo vigliaccheria travestita da empatia e apertura mentale. Loro sanno bene con chi stare, ma travestono questa certezza da equidistanza. E quindi stanno con tutti tranne che con le vittime. Un simile atteggiamento mi fa pensare a quelli che compiono improbabili equilibrismi intellettuali per capire “le ragioni della Russia”, paese gestito in modo mafioso da uno dei più grandi boss della storia umana (si fa per dire).

Leggendo queste parole, le anime “belle” di Calabria, difensori a oltranza di certe tradizioni che ormai sono considerate parte del folklore locale, insorgerebbero di sicuro e direbbero che ‘non tutti sono così’, che ‘non si può generalizzare’, ‘fare di tutta l’erba un fascio.’ Direbbero che sono un’ingrata, che sputo nel piatto dove mangio e che sono una traditrice, perché invece di parlare bene della “mia” terra, mi aggiungo al codazzo dei suoi (infami) detrattori.

Chiacchiere al vento. Belati di gente spaventata dalla possibilità di perdere privilegi atavici derivanti da leggi non scritte, leggi stupide e spesso criminali, di sicuro criminogene. Il problema non è certo la generalizzazione, ma piuttosto ma la generalità, o se preferite la spaventosa diffusione dei fenomeni di cui scrivo. Sì perché se è vero che queste cose possono capitare ovunque, nel mondo e non solo in Italia, quello che colpisce sempre in negativo nel caso della Calabria e di Reggio Calabria in particolare, sono la compattezza e l’omogeneità quasi perfette – senza macchie – con le quali una certa mentalità arcaica (e deleteria) viene mantenuta e imposta.

E si ritorna così al concetto purtroppo relativo e relativizzabile di “normalità.” In fondo cos’è un fiore finito in un letamaio se non una macchia nella perfetta uniformità del letame?

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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