“Ho imparato così tanto da voi, Uomini... Ho imparato che ognuno vuole vivere sulla cima della montagna, senza sapere che la vera felicità sta nel come questa montagna è stata scalata” - Gabriel Garcia Marquez
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Il sonno delle emozioni genera mostri

di Mariagrazia Costantino* – Il 7 ottobre 2023 è una data storica: è il giorno in cui è stato ucciso il maggior numero di ebrei dopo l’Olocausto.

Ho fatto fatica a mettere a fuoco quello che è successo il 7 ottobre. Perché sebbene gli autori del raid abbiano ampiamente documentato la strage di partecipanti al Nova Music Festival, di abitanti dei kibbutz di Be’eri, Kfar Aza, Nir Oz e di militari accorsi in aiuto, oggi sappiamo che le immagini possono ingannare. Non ci fidiamo più di quello che vediamo. Non capiamo quello che proviamo.

Per capire bisogna conoscere, per conoscere occorre sentire. Ovvero comprendere le emozioni, che adesso invece sono solo una fastidiosa interferenza da eliminare con distrazioni (e sostanze) di ogni tipo.

La realtà si decodifica a partire dagli effetti e affetti che provoca in noi, non dalla ragione. Questo in apparenza contraddice tutti gli appelli a mettere da parte l’emotività per considerare i fatti nella loro oggettività, ma sono le emozioni, prima ancora che la ragione, ciò che ci contraddistingue come specie. Senza emozione la ragione si riduce a freddo calcolo. Questo vale per tutti i settori dello scibile umano. Vita compresa.

 

Vediamo tanti giovani nelle piazze di città così evolute inneggiare alla causa palestinese, a volte lasciarsi andare a slogan antisemiti, persino ad aggressioni fisiche e verbali. Li giustifichiamo perché ci sembrano animati da fervore giovanile, pensiamo che abbiano a cuore le povere vittime innocenti. Però qualcosa non quadra nell’equazione, e bisognerà cedere alla seduzione del benaltrismo, chiedersi perché quelli sì e quegli altri no? È vero che i morti sono tutti uguali, ma alcuni sono più morti di altri. Oppure: è vero che i morti sono tutti uguali, sono i vivi a essere diversi.

Il problema di questi giovani non è la loro passione, ma la loro incapacità di appassionarsi veramente e di capire gli eventi in modo empatico. La loro irriducibilità e la loro totale indisponibilità a provare pietà per coloro che sono percepiti come nemici, fa paura e mi ricorda la barbarie post-apocalittica descritta da Cormac McCarthy in The Road. Che poi è speculare alla barbarie di chi ha colto gente inerme nel sonno, massacrandola e abusandone nei modi più atroci.

Questa non è guerra e non ha niente a che fare con la guerra. Non è conseguenza di conflitti precedenti e non è vendetta per le politiche di apartheid di Israele o per la crudeltà dei coloni. È qualcosa di diverso, è una volontà di sterminio di tutto ciò che di buono il genere umano ha saputo esprimere a qualsiasi latitudine. È odio cieco mascherato da fanatismo religioso, mascherato a sua volta da causa politica (e umanitaria).

Perché i giovani occidentali si sentono tanto coinvolti dall’odio?

Forse perché lo conoscono bene: è il rifiuto lucido e razionale dell’Occidente che imparano nelle Università. Lo imparano male, perché male viene loro insegnato. Studiano il colonialismo ma non la decolonizzazione; il razzismo e l’Orientalismo, ma non gli effetti secondari, come il paternalismo con cui si guarda alle popolazioni di quello che oggi è chiamato “Sud Globale”, e la stessa superiorità (ma inconsapevole) con cui Rousseau parlava del “buon selvaggio”, considerato incapace di cattiveria e di qualsiasi iniziativa. Questi giovani dicono di odiare l’Occidente colonialista e violento con i “deboli” (che poi tanto deboli non sono, almeno non più), ma in realtà sono i loro genitori e se stessi che odiano, in una forma perfetta di proiezione junghiana.

Se riuscissero a capire le loro emozioni, vedrebbero il controsenso insito nel piangere i morti di una parte, festeggiando per quelli di un’altra.

 

Non è questa la sede per dipanare la trama complessa del conflitto israelo-palestinese, vorrei solo far presente che continuano a esserci attacchi e vittime da entrambe le parti e tutte hanno lo stesso peso. Chi ricorre all’apparente disproporzione numerica pensando che siano solo i numeri a fare la gravità, fa una distinzione non meno immorale di chi dà più importanza alle vittime a seconda della loro provenienza. Gaza è sotto un pesante attacco per opera di Israele, ma per volere di Hamas. Di cui Benjamin Netanyahu si è reso insospettabile alleato. E le persone muoiono.

L’Occidente, cioè Europa e Stati Uniti, è deprecabile nella misura in cui ha prima occupato e sfruttato – ricordiamo che l’intera zona è stata protettorato inglese dal 1920 al 1948 – e adesso frigna in modo pietistico per le “vittime” che lui stesso ha contribuito a creare, nel tentativo estremo e estremamente ipocrita non di salvarle (le dovrebbe salvare in primo luogo dagli aguzzini che ha incoraggiato) ma di salvare se stesso dai propri sensi di colpa. La cosa, che sarebbe comica se non fosse tragica, è che lo fa sconfessando la democrazia – la migliore espressione che ha saputo dare di sé – e minimizzando gli abusi che regimi non-democratici compiono ai danni delle proprie popolazioni, di quelle limitrofe e delle minoranze nei loro territori. Parlo di Iran, Russia e Cina.

 

Come tutti, ricordo esattamente cosa facevo l’11 settembre 2001: ero in treno e l’eco di quello che stava succedendo arrivava attutita dai commenti degli altri passeggeri che erano stati avvisati da parenti e amici. Non c’erano smartphone e non c’era wi-fi. Era l’età dell’innocenza, in cui le persone accettavano l’idea di non sapere, di doversi informare per formare un’opinione (che comunque non era richiesta a tutti i costi). Io ero giovane e arrogante. Studiavo Lingue Orientali, avevo l’Occidente in antipatia e pensavo di aver capito tutto. Per questo, quell’attacco mi sembrava un’inevitabile conseguenza della hubris occidentale, una specie di giustizia calata dall’alto con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno (cit.). Certo mi dispiaceva per le vittime, ma non provavo empatia, ero un cervello con due gambe e due braccia. Un contenitore di spietata e ottusa razionalità, come lo sono oggi tanti giovani diseducati alle emozioni.

Ventidue anni dopo sono una persona diversa: non adulta forse, ma sicuramente più vicina alla maturità. Soprattutto, ho imparato a capire la sofferenza, mia e degli altri. Ho capito che dolore e disperazione sono cose serie e reali (forse le uniche) e che quando si decide di non vederle o allontanarle, diventano mostri che tornano a cercarci.

Oggi la cinica razionalità di chi commenta l’attacco a Israele del 7 ottobre come una logica conseguenza di anni di soprusi ai danni del popolo palestinese, mi disorienta e mi sconvolge. Perché uccidere persone inermi nei modi più vili e brutali non può essere la logica conseguenza di niente. Causa ed effetto sono leggi naturali che hanno una loro crudele armonia. Fanno crollare montagne, travolgono i corpi e inondano città, ma qui non c’è causa ed effetto. Qui c’è la volontà tutta umana (o diabolica, per chi crede al diavolo) di annientare: il desiderio – non più prerogativa dell’Occidente – di rafforzare un potere corrotto e coercitivo manovrando eserciti di sbandati, scagliandoli contro un nemico creato ad arte per dirottare il disagio e portarlo fuori da sé.

*Sinologa e docente universitaria – Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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