di Claudio Cordova – Per essere andato a casa del boss Pelle per parlare di voti, l’allora senatore Antonio Caridi, prima di essere assolto in primo grado, ha vissuto circa due anni di custodia cautelare in carcere. Al netto dello spessore criminale (di sicuro il buon Daniel Barillà non è Peppe Pelle), che differenza c’è con Giuseppe Falcomatà che, disperato per la paura di perdere contro Nino Minicuci (in effetti sarebbe stata un’onta), abbandona per un po’ la spocchia e, di fatto, va a mendicare supporto elettorale all’uomo degli Araniti sulle zone di influenza?
Una c’è. Per Pelle, stando alla sentenza di primo grado del processo “Gotha”, non si sarebbe dimostrato il do ut des con Caridi. Mentre Barillà, secondo gli inquirenti, sarebbe stato nominato in enti pubblici come professionista esterno.
Solitamente, quando un esponente politico viene coinvolto, almeno a livello relazionale, in dinamiche di ‘ndrangheta, è facile analizzare stigmatizzando come, oltre alla rilevanza penale, ne esca male soprattutto sotto il profilo istituzionale. In questo caso, però, si va ben oltre.
Vale per Giuseppe Falcomatà, ma vale anche per gli altri due politici indagati, il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Regione, Giuseppe Neri, e l’esponente del Pd a Palazzo San Giorgio, Giuseppe Sera. I tre “Peppi” ne escono male sotto il profilo umano. Per profilo umano non si intende, in questo caso, il classico discorso sull’etica e sulla questione morale.
Ma si parla proprio di dignità umana.
La Dda di Reggio Calabria e il GIP hanno fatto le proprie valutazioni di carattere penale sui tre politici indagati. Piacciano o no. Su quelle si può incidere poco. Si può discutere su quanto ne escano male come persone, i tre. In maniera alternata, a seconda dei momenti, si dimostrano talvolta asserviti, talvolta complici, altre volte questuanti. Proprio come accade con le persone con cui si ha familiarità.
Nella fattispecie, gli indagati avevano familiarità con una persona che i giudici definiscono un “pupillo degli Araniti”, essendo il genero dell’anziano capoclan, Domenico, anch’egli coinvolto nell’indagine.
Da qui, dunque, la figura barbina di tutti. Di Neri, che discute di dinamiche politiche da pari a pari con questi soggetti. Di Sera, che sembra essere davvero il candidato di riferimento del gruppo. Di Falcomatà che, terrorizzato dall’insuccesso si rivolge a “Danielino”, come lo chiama lui, facendosi dettare la linea: niente aperitivi e cenette, ma incontri ad hoc, con chi può portare il mucchio di voti che a Falcomatà servono per non andare a casa.
Le carte d’indagine dell’inchiesta “Ducale” sono, come spesso accade per le indagini sulla città di Reggio Calabria, una fotografia sociologica di quella melassa che è il capoluogo. Una sorta di suburra, dove chi si candida a guidare in futuro la città ha parentele equivoche, dove chi si batte(rebbe) per i diritti di persone svantaggiate cerca invece vantaggi per la politica, dove tutti hanno a che fare con tutti e dove personaggi che sembrano fuoriusciti dalla politica (sporca) in realtà, non ne fuoriescono mai.
Sono a decine i nomi, nelle carte. Ma non sono indagati. E quel cancro chiamato Legge Cartabia li preserva, per ora, al pubblico ludibrio che meriterebbero.
E questo vale anche per i tanti, tantissimi, rampolli della Reggio Bene, figli di professionisti, di sicuro più che benestanti e con posti già di rilievo della società reggina. Che, invece di lavorare, invece di provare a emergere, invece di spendersi per la città (vantando anche relazioni fuori dai suoi confini) preferiscono brigare con soggetti di dubbia qualità e di dubbia scolarizzazione.
Una tristezza infinita. Potessi, venderei loro (profumatamente) un po’ del mio orgoglioso snobismo, grazie al quale a questi soggetti non stringerei nemmeno la mano.