Nel mese di marzo appena trascorso è stato pubblicato, “Mangiare da matti: una storia socio-alimentare nel manicomio di Girifalco (e non solo)”, un saggio che, per la prima volta in assoluto, analizza i regimi alimentari che caratterizzavano la vita dei pazienti di un ospedale psichiatrico, con focus sul manicomio nato a Girifalco (Cz) nel 1881 e chiuso nel 1978.
Il volume, pubblicato dalla casa editrice “Editoriale progetto 2000” di Demetrio Guzzardi, è frutto del lavoro di ricerca svolto all’Archivio di Stato di Catanzaro dal giovane sociologo Davide Costa che, nella stesura, ha collaborato con il professore Raffaele Serra, titolare della Cattedra di Chirurgia Vascolare presso l’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro.
Nel medesimo ateneo, Costa ha conseguito (oltre a quella in sociologia) la laurea in Professioni Sanitarie e Scienze delle Amministrazioni e delle Organizzazioni Complesse e attualmente è Dottorando di Ricerca in Ordine Giuridico ed Economico Europeo.
Il volume si apre con un’interessante disamina sul concetto di “malattia mentale” e su come esso sia stato interpretato nei secoli passati; un lungo arco temporale, segnato anche dalla creazione di istituti ad hoc: i manicomi, che “in Italia, come nel resto del mondo, non furono soltanto
luoghi di cura, ma più frequentemente, strumenti per eliminare dalla società, soggetti scomodi, imbarazzanti o più semplicemente devianti rispetto alle norme socialmente definite”. L’analisi si arricchisce inoltre di una mappatura completa degli ospedali psichiatrici in Italia con localizzazione geografica e data di apertura e chiusura e ci presenta sullo sfondo vari personaggi che, a vario titolo, contribuiscono ad accrescere l’interesse e la completezza della narrazione. Tra questi: Franco Basaglia, Sabina Spielrein, Sigmund Freud.
Il focus del saggio è sicuramente il manicomio di Girifalco, che è stato analizzato con una nuova lente, quella della sociologia alimentare.
Dopo aver delineato la storia delle origini della struttura e del contesto sociale ed ideologico nel quale essa nacque – legato anche a teorie di stampo lombrosiano – parte l’analisi vera e propria dei registri contabili, grazie ai quali è stato possibile ricostruire i menù settimanali, incrociando specificatamente i registri contabili e l’allegato relativo al vitto. È importante sottolineare che tutta l’organizzazione della struttura era differenziata a seconda delle classi sociali che venivano distinte in classe contadina, classe artigiana e civile. Con quest’ultima si indicavano i pazienti appartenenti alle classi sociali agiate, per i quali era anche prevista la sistemazione in luoghi separati, oltre ad un diverso trattamento per quanto riguardava la somministrazione degli alimenti. Infatti, ai civili non solo venivano riservati prodotti più pregiati, ma anche un piatto in più.
Nello specifico, il pasto della terza classe era costituito da un piatto di pasta al sugo, un pezzo di pane, un sorso di vino; mentre più ricchi erano i menu della prima e seconda classe, con un
primo, un contorno, un secondo e poi frutta, bevande e pane. Inoltre nei menù della terza classe, spesso si ritrovano dei cibi riciclati, nel senso che in diversi casi, cibi del giorno precedente preparati per la prima classe, si ritrovano nel menù del giorno successivo nel vitto della terza classe.
Come si sottolinea nel libro, “la ritualità del menù e la differenziazione sociale a essa connessa, all’interno del manicomio divengono elementi con i quali cogliere categorie sociali e aspetti profondi che probabilmente non sarebbero così rilevabili o
tangibili ricorrendo ad altri prodotti umani”.
Insomma, un lavoro senza dubbio originale che apre la via alla possibilità di svolgere ulteriori ricerche per
approfondire le tante questioni che restano ancora aperte in merito ai trattamenti, ai rapporti tra l’istituzione e l’alimentazione.