La vicenda dell’adolescente somala che ha ricominciato a camminare a quindici anni, raccontata dalla TgR Rai della Basilicata, è emblematica di molti argomenti su cui credo valga la pena riflettere. Il servizio ci parla di una giovane donna, giunta in Italia attraverso un corridoio umanitario e residente in Calabria da tre anni; della sua malformazione fisica, con circa sei centimetri di differenza tra una gamba e l’altra; del primo delicato intervento chirurgico, eseguito presso l’ortopedia pediatrica dell’ospedale San Carlo di Villa d’Agri in Lucania dal dottor Luigi Promenzio; infine del secondo intervento e della riabilitazione presso Villa Serena For Children, struttura inserita nella rete formativa dell’Università di Catanzaro. Insomma, la storia di una giovane vita che scappa dalla guerra zoppicando e che ritrova, in pace, la gioia della vita, magari sgroppando su un prato, stretta dall’abbraccio solidale del Sud.
Non bisognerebbe stupirsi di una storia così, perché è a questo che servono i medici e la medicina. Tuttavia non possiamo non sottolineare che tutto accade in una realtà, la nostra, abituata a vedere la sanità non come sistema di cura cui affidarsi, ma piuttosto come un ambito a cui sottrarsi se si ha un problema grave di salute. Ecco perché la vicenda dell’adolescente somala è emblematica, perché ci dice prima di tutto quanto siano pericolosi i luoghi comuni. Certo, la nostra sanità è afflitta da mille criticità e da altrettanti problemi, è ancora lontana dal garantire livelli di assistenza sufficienti e omogenei in ogni area medica ma c’è anche chi, tuttavia, ogni giorno lavora con dedizione e competenza, producendo qualità di altissimo livello, sforzandosi di migliorare il servizio fino a diventare punto di riferimento anche fuori dai confini regionali.
Ma non è solo questo. La vicenda è emblematica anche perché ha preso corpo in una rete di rapporti complessi ma necessari, fatti di dialogo e collaborazione tra presìdi sanitari diversi, impegnati nel cercare non il primato individuale ma la migliore risposta alla domanda di salute della persona. Una rete che quindi, di quel paziente, si fa carico in maniera globale. Questo è ciò che chiamiamo buona sanità, alla quale la Calabria, il Sud, non sono affatto estranei. Una buona sanità che dovrebbe essere da stimolo ed esempio per migliorare quello che ancora non va, ma della quale dovremmo ricordarci ogni volta che cadiamo nella tentazione di dire che qui non funziona niente e che per curarsi è meglio andare altrove.
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