di Valeria Guarniera - La Calabria gli scorre nelle vene. La vive, nelle sue contraddizioni. E la canta, con tutte le sue passioni. Mimmo Martino, classe 1955, della sua terra non potrebbe fare a meno. E' leader e fondatore dei "Mattanza", gruppo storico che punta a valorizzare i testi popolari, portando alla luce degli autentici tesori da troppo tempo dimenticati. Parlare con lui è come fare un viaggio attraverso le nostre radici. Nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi occhi le sfaccettature di una Calabria arrabbiata, delusa, amareggiata. Ma anche dolce, vivace, piena di speranza. E lui - "testa dura" - da qui non se ne vuole andare. Vuole ancora guardare questo cielo. Ha bisogno ancora di sentire questi profumi. E vive per ascoltare le sue voci.
Quando si dice "Mimmo Martino" l'associazione con i "Mattanza" è quasi automatica. Del resto, tu sei il fondatore e l'anima del gruppo che da decenni, ormai, lavora per valorizzare la cultura popolare riscoprendo e riportando alla luce testi, filastrocche, proverbi e ninna nanne tristemente dimenticati. "Mattanza", appunto, nome che evoca immediatamente il suo significato: matar, in spagnolo, significa uccidere. E la mattanza denunciata dalle note e dalle parole delle vostre canzoni è quella che è stata fatta nei confronti della cultura, della storia e delle tradizioni. Spesso, nei vostri concerti, dici che "la gente non sa di cosa parlano i testi popolari" e che quei "trullallero" inseriti qua e là uccidono le canzoni e distraggono dal loro reale significato. Cosa intendi dire?
"La tecnica della cosiddetta "cultura egemone" tende ad appiattire, ad annullare a far apparire la cultura popolare come cosa da niente, senza valore. Quindi si cade nella trappola di banalizzare rendendo magari più ballabile canzoni come "vitti 'na crozza" che è un brano di una bellezza mozzafiato, di cui molti non conoscono il significato. Ci sarebbe da chiedersi perché e, a mio parere, il perché è quel "tirullallero" che, banalizzando il testo, induce la gente a pensare che sia una canzonetta senza significato. Da ballare e non da ascoltare. Questa superficialità è il dramma della società comune ed è assolutamente da abbattere"
Ogni esperienza di vita contribuisce a formare il carattere e a diventare la persona che, negli anni, si sceglie di essere. Era la fine degli anni sessanta quando, tra Parma, Bologna e Reggio Emilia, facevi rock durissimo con un gruppo chiamato "I Rifiuti". Poi, rientrato a Reggio, ti sei dato alla musica leggera con i "Rubacuori". Cosa c'è, nell'uomo di oggi, del ragazzo di ieri? Quanto hanno contribuito quegli anni alla tua formazione?
"Hanno contribuito tantissimo, tanto che non ho mai abbandonato né il rock, né il blues e ce li metto dentro anche con i Mattanza. Nel prossimo album – in questo senso – ci sarà qualcosa di sconvolgente. Quella formazione mi è servita soprattutto per riuscire a capire qual'era l'approccio giusto per sottolinea i contenuti letterari della nostra tradizione. Lo ribadisco sempre: tramite i Mattanza non faccio musica popolare, non mi interessa. C'è altra gente che lo fa e lo fa bene. Noi facciamo musica e la cosa più importante, per noi, è valorizzare i testi, la nostra tradizione letteraria perché attraverso questa valorizzazione cerchiamo di puntualizzare quanto ricchi eravamo e potremmo essere se solo prendessimo coscienza di questa cosa. E questa valorizzazione attraverso la musica viene resa più semplice e accessibile"
A gettare le basi per quella che forse è stata una svolta nella tua vita, che ti ha fatto imboccare una strada ben precisa, prima i "Campanella" con cui eseguivi canzoni di lotta; poi l'incontro con il professor Luigi Lombardi Satriani, ordinario di etnologia. Incontro che portò alla nascita del "Gruppo di Ricerca Tommaso Campanella". Da lì, paese dopo paese, concerto dopo concerto, inizia la tua ricerca e la trascrizione di ciò che, andando in giro, sentivi dalla voce della gente: persone umili, senza una grande istruzione, ma depositarie di una cultura orale millenaria. Parole e pensieri che poi hai iniziato a mettere in musica. Quando hai capito che quella era la musica che volevi fare? E' stato un percorso casuale, o l'hai sempre saputo?
"Tornato da Parma mi facevano cantare delle cose che definivano "folk" che a me non piacevano: denotavano una sorta di povertà culturale e non riuscivo a capire se effettivamente era così o meno. Spinto e incuriosito da questo dubbio ho iniziato la ricerca. E ricerca, per me, significava entrare dentro le cose per capire se effettivamente eravamo così poveri. Ho scoperto, invece, che eravamo ricchissimi, senza saperlo. Una ricchezza fatta di autentiche pagine di letteratura popolare di straordinaria bellezza"
"Un popolo senza storia è come un albero senza radici. E' destinato a morire". Nei concerti lo dici sempre. E le radici che, con la vostra musica, cercate di tenere in vita sono quelle che ci legano alla nostra tradizione, fatta di canti popolari, di canzoni in dialetto e di testi che raccontano la storia della nostra terra. Avete un grande pubblico che vi segue e vi ama. Pensi che, con il vostro lavoro, siate riusciti a contenere, almeno un po', quella mattanza di cui parlavamo prima?
"Spero di si. Fondamentalmente la soddisfazione più grande che personalmente ho è che quando la gente mi si avvicina per complimentarsi sento che quelle parole hanno un sapore particolare. Non è come quando scendevo dal palco dopo aver fatto il blues. Dentro quel complimento c'è qualcosa di diverso. C'è un senso di gratitudine che si traduce, poi, nella loro dichiarazione che dice "tu mi fai sentire orgoglioso di essere calabrese". Questo per me è il complimento più grande che si possa ricevere e racchiude il senso di quello che facciamo. Sono felice di questo e in qualche modo credo di aver intaccato questa mattanza"
A proposito di radici: tra i tanti viaggi fatti per portare in giro le parole della Calabria, i tanti premi vinti, frutto di un lavoro tanto bello quanto faticoso, Reggio, comunque, è sempre stata la tua casa. Ma, ti chiedo: a Reggio ti sei sempre sentito a casa? C'è stato un momento, nella tua vita, in cui avresti desiderato vivere altrove? In cui, magari, questa città ti è stata un po' stretta?
"Le difficoltà di vivere in una situazione come quella nostra sono evidenti, tutti le vivono e tutti, secondo me, hanno un momento di crisi in cui pensano "ma chi me la fa fare? Me ne vado". Però non ci riesco, non ci sono riuscito e non so se ci riuscirò nonostante questo impulso, a volte, ci sia ancora. Probabilmente – e me lo dicono in tanti - una realtà come quella dei Mattanza in altre città avrebbe un riscontro diverso. Insisto nel restare qui e nel portare avanti questo progetto intanto perché "sugnu calabrisi" e – come tutti i calabresi – ho la testa dura. Poi perché ritengo che quello che io traduco in musica è frutto del fatto che sto qua. Per cui anche questa rabbia, questa testardaggine, questa voglia di rivendicare il proprio essere, nasce proprio dalle mie radici. Forse, se stessi fuori, verrebbe meno questa componente fondamentale della mia musica"
"Un servu e un Cristu" è un cavallo di battaglia che nei vostri concerti non può mai mancare. E' un antichissimo testo popolare siciliano, che la Chiesa all'epoca censurò e modificò, perché mostra il lato severo del Cristo, quello che esorta l'uomo a non lamentarsi per le ingiustizie subìte, aspettando che qualcuno vi ponga rimedio: "cu voli la giustizia si la fazza, non speri ch'autru la fazza pe ttia". Nella tua vita in generale, e nella tua carriera in particolare, hai mai avuto la sensazione di aver a che fare con una "Malarazza" che ti metteva i bastoni tra le ruote? Quali difficoltà hai dovuto affrontare? Su chi hai fatto sempre affidamento?
"Quotidianamente, senza sosta: è una lotta continua. Il problema è come riuscire a creare le sinergie giuste per abbattere queste difficoltà quotidiane che abbiamo e viviamo tutti. Gli ostacoli maggiori sono l'ignoranza e l'indifferenza. Rappresentano il nostro dramma quotidiano più grave. L'attenzione verso l'altro è qualcosa che dobbiamo alimentare perché altrimenti la società non può funzionare. E' su questo che dobbiamo puntare, tutti. Potrei raccontare tantissimi episodi quotidiani che accadono e che potrebbero spingere chiunque, anche il più santo, a volersene andare via. Dobbiamo fare un percorso di miglioramento, curare i contenuti e abbattere l'indifferenza. Da questo punto di vista – per quello che faccio – mi ritengo un militante. Se non c'è qualcuno che spinge, le cose non funzionano e – nel mio piccolo – cerco di farlo. Le difficoltà sono tantissime: le Istituzioni non aiutano, sono altrettanto indifferenti e sono lì grazie all'indifferenza. E' una specie di circolo vizioso e uscirne è difficilissimo"
Quando dici che: "culu 'nci voli ... u sapiri non giuva", in pratica, riassumi la sensazione di ingiustizia e precarietà che, purtroppo, pervade le giovani generazioni. La tua frase diventa lo specchio di un mondo che sembra essere fatto al contrario, in cui vengono premiati solo quelli che sono "baciati dalla fortuna" e in cui il merito, la fatica e lo studio non portano da nessuna parte. Lo pensi veramente? Che consiglio daresti ad un giovane che vorrebbe – dignitosamente e onestamente – concretizzare qui ciò che, in anni di studio, ha imparato? Vale la pena, in una realtà come la nostra, spendersi per il proprio territorio?
"Ne vale la pena perché siamo ricchi. Bisogna prendere coscienza di questa ricchezza. Se ci rendessimo conto di ciò che abbiamo ci comporteremmo diversamente. E se lo insegnassimo davvero ai ragazzi certi atteggiamenti, forse, non si verificherebbero. Conoscere la ricchezza e non disprezzarla, bisogna partire da questo. E' un problema culturale quello che abbiamo, senza alcun dubbio. Abbatterlo e alimentare questa conoscenza è il compito che dobbiamo darci tutti, perché altrimenti non ne usciamo. "Culi 'nci voli, u sapiri non giuva" è una dichiarazione popolare. Noi abbiamo un grande problema che è nato dopo l'Unità d'Italia. Con questo non voglio dire di essere separatista. C'è un altro detto popolare: "Si stava megghiu quandu si stava peggiu". Sono tutti proverbi nati dopo l'Unità. Prima non esisteva l'emigrazione, non si andava via da qui. Perché dopo la gente ha iniziato ad andare via? Dobbiamo farci queste domande e capire cosa c'era prima che ci faceva restare qui. Dobbiamo conoscere il nostro passato e riappropriarci della nostra identità. Perché a trainare dev'essere il Nord? E se fosse il Sud il traino? Siamo dotati della materia prima migliore al mondo e non siamo in grado di approfittarne. I cosiddetti "gestori della Cosa Pubblica" non si rendono conto della pochezza delle loro proposte. Abbiamo una ricchezza enorme ma facciamo il gioco di chi vuole che questa terra rimanga indietro per poterla comandare e gestire. Dopo averci devastato vogliono ancora essere padroni"
E questa terra, che ami e che – come hai sottolineato – è parte fondamentale della tua musica: quanto ti ha messo i bastoni tra le ruote?
"la Calabria è isolata, addirittura più "isola" della Sicilia. Qui non abbiamo palcoscenici importanti. I contatti con le case discografiche non esistono, devi andarteli a cercare. Se devono venire qui, viste le difficoltà, ci pensano due volte. Ti obbligano ad andare via. Un'esperienza come i Mattanza non decolla perché – nonostante tutto, con la nostra testa dura – noi comunque da qui vogliamo e dobbiamo partire. Il senso della nostra musica è racchiuso in questa terra. Questa presa di posizione probabilmente ci ostacola. Ma è una scelta consapevole che, quotidianamente, facciamo"
In conclusione: resto in Calabria. Perché?
Perché sono "testa dura". E poi, personalmente, sono troppo legato a questo cielo, questi profumi, questo panorama. La Calabria è "un paradiso abitato da diavoli".