di Gianni Carteri* - Quando nella primavera del 2000 Costantino Belluscio mi telefonò per comunicarmi di aver proposto al Presidente della Giunta Regionale Peppino Chiaravalloti il mio nominativo in rappresentanza della Calabria, quale membro del Comitato Nazionale per lo studio e la valorizzazione dell'opera di Cesare Pavese, capii, da subito, che i tanti anni dedicati allo scrittore di Santo Stefano Belbo approdavano a qualcosa di concreto per il mio paese.
In parte ciò era già avvenuto perché, grazie alla sensibilità di Giacinto Marra e dell'editore Rubbettino , ben tre volumetti da me scritti avevano dato all'esperienza del confino calabrese una centralità indiscussa nella maturazione della poetica pavesiana con l'approdo al mitico- selvaggio che poi percorrerà gran parte della sua opera e che culminerà in quel gioiello narrativo che sono Dialoghi con Leucò e che Pavese poggiò sul comodino della stanza all'albergo Roma di Torino ,con il suo drammatico messaggio finale , prima di suicidarsi nella notte tra il 26 e 27 agosto 1950.
Anche in quest'opera non è mai stato difficile per me vedere tanti volti del mio amato paese dal quale sono partito e al quale sono poi ritornato perché " un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente , nelle piante , nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti."
In questo momento scorrono ad uno ad uno i tanti personaggi descritti da Cesare Pavese nel Carcere che ritrovai una mattina di luglio del 1990 nel salone di mastro Consolato Valastro. Tutti emozionati nel ritornare indietro nel tempo , sciorinandomi particolari inediti che trasudavano rispetto e simpatia umana per quel giovane professore di Torino mandato dal regime fascista per tre anni ( poi ridotti a nove mesi) nella nostra Brancaleone.
Avevo fatto lunghe passeggiate soprattutto con don Oreste Politi che ,con il suo parlare ironico e suadente , il viso piegato,quasi a tendere l'orecchio per ascoltare alla maniera pavesiana ,intervallato da lunghi sguardi interrogativi e sornioni: più dei libri della critica militante era stato lui che mi aveva fatto entrare in punta di piedi nel recondito dramma umano di Cesare Pavese.
Tenni fede all'ultima volontà dello scrittore " non fate troppi pettegolezzi" e non inserii mai nei miei libri le confidenze anche piccanti che il magico don Oreste ( il Giannino Catalano del Carcere ) mi fece più volte. Le ho sempre tenute serbate nel mio cuore ed esse mi hanno aiutato a comprendere dal di dentro la vera essenza non solo della vita ma anche della poetica pavesiana.
Il mio lavoro in seno alla Giunta Esecutiva andò subito in due direzioni:l'istituzione di una Biblioteca a Brancaleone nel nome di Cesare Pavese e la realizzazione a quattro mani di uno studio più approfondito e relativa pubblicazione sulla sua esperienza calabrese. Mi è stato d'aiuto l'artista piemontese Gaudenzio Nazario che più volte mi sostituì nelle sedute della giunta in quel di Santo Stefano Belbo. Oggi Gaudenzio non c'è più e negli ultimi anni è stato su una sedia a rotelle dopo un devastante ictus che gli impediva quasi di parlare . Ogni volta che lo chiamavo a monosillabi mi chiedeva sempre con grande sofferenza : " Che novità mi dai dalla nostra Brancaleone ?".
Con il suo apporto e quello di Lorenzo Mondo ed Elio Gioanola si era creata una sinergia Nord-Sud che riuscì a scardinare la diffidenza di parte dei membri e l'accettazione delle nostre proposte , sostenute con forza anche dall'allora sindaco Mimmo Malara.
Di quelle riunioni in terra piemontese mi piace ricordare il compianto Marziano Guglieminetti e soprattutto il mitico Direttore editoriale della Einaudi , Roberto Cerati , amico per lunghissimi anni di Cesare Pavese nella casa Editrice di Via Biancamano. Sempre in abito nero e in religioso silenzio seguiva i lavori ,talora incandescenti ,della Giunta con apparente distacco, ma poi spiazzava tutti con le sue proposte realistiche e positive.
Mandò da subito più di duecento volumi per avviare la nostra Biblioteca.
L'idea che i rappresentanti calabresi chiedessero con caparbietà almeno sessanta milioni delle vecchie lire sul mezzo miliardo stanziato dal Ministero dei Beni culturali non andava proprio giù agli amici del Nord anche se alla fine dovettero arrendersi. Grazie ad altri contributi integrativi inviati dalla Regione Calabria oggi la Biblioteca è una realtà anche se il difficile inizia adesso. Ci vorrà un Comitato scientifico di alto profilo altrimenti essa sarà un' altra occasione mancata e sarà un vero peccato farla volare con un profilo basso e mediocre. Il Sud deve uscire dalla logica spartitoria-clientelare e valorizzare le vere intelligenze se vuole darsi un cammino di riscatto culturale, centrale nello sviluppo economico di questa terra.
Un punto di partenza dal quale partire per tutta una serie di iniziative che facciano di Brancaleone crocevia indiscusso degli itinerari culturali pavesiani nei prossimi anni.
E qui mi corre l'obbligo di ringraziare il professor Vito Teti che ha voluto dedicare a Pavese nel suo bellissimo Il senso dei luoghi un apposito capitolo all'esperienza calabrese attraverso un ritorno da parte mia nei luoghi della mia memoria infantile su quella rocca aperta sul mare che è la vecchia Brancaleone.
Senza spirito di polemica ma per amore della verità devo dire che quando nel 1975 iniziai i miei studi per la tesi di laurea sul confino di Pavese a Brancaleone in molti sorridevano quasi infastiditi. Una certa subdola propaganda portata avanti in mala fede da certa cultura imposta da scheggia della sinistra , poco lungimirante, aveva imposto il silenzio su Pavese, liquidandolo come uno scrittore che aveva parlato male del paese.
Questo rivelava superfialità e mediocrità culturale.
Ci volle tutta la mia caparbietà e la collaborazione di persone che voglio qui ricordare per scardinare i pettegolezzi messi ad arte in giro per screditare lo scrittore : Mela Palermiti, Memma Romano, Gianni Piemonte , Don Oreste Politi , Consolato Valastro, mastro Nino Lauro, il vecchio pescatore Muià, Tommasino Manglaviti, nonchè mio padre, che preparava con la sua consueta passionalità nella vecchia Brancaleone Superiore le mitiche scampagnate pavesiane nelle nostre vigne che si concludevano in casa di nonna Mica, con in testa al gruppo l'amatissimo e intelligente Angelino Palermiti.
Ma cosa significò per lui la Calabria fin dal suo arrivo quell'ormai lontano pomeriggio del 4 agosto del 1935.
Il mare calabrese diventò da subito la quarta parete della sua cella e farà ritornare alla sua mente proprio quella spiaggia ligure" veramente bella, con l'azzurro carico tutto solcato da fini triangoli bianchi."
L'esperienza calabrese è mirabilmente descritta nelle lettere. Qualcuna veniva consegnata( per sfuggire alla censura) nelle mani di Pietro Spinella , allora giovane studente e figlio di un ferroviere, che saliva a Torino a trovare alcuni parenti .I gerarchi scelsero proprio un paese grecanico, in fondo allo stivale e pieno di spiriti socialisti ,guidati dal mitico dottor Vincenzo De Angelis, a testimonianza che ben poco conoscevano la realtà politica meridionale.
Di Spinella e dei giovani che frequentavano il bar Roma Pavese ne fa un ritratto in Terre bruciate ,nel volume Lavorare stanca :
Parla il giovane smilzo che è stato a Torino./ Il gran mare si stende, nascosto da rocce ,/ e dà in cielo un azzurro slavato . Rilucono gli occhi / di ciascuno che ascolta./Sento il mare che batte e ribatte spossato alla riva./ Vedo gli occhi profondi di questi ragazzi / lampeggiare. A due passi il filare di fichi / disperato s'annoia sulla roccia rossastra./ (...)Ho fissato le occhiaie del giovane smilzo/ tutte intente. Han veduto anche loro una volta quel verde./ Fumerò a notte buia , ignorando anche il mare.
L'impatto del "professore" (così lo chiamavano tutti a Brancaleone) è un piccolo trattato a sfondo sociologico:
" Cara Maria, sono arrivato a Brancaleone domenica 4 nel pomeriggio e tutta la cittadinanza a spasso davanti alla stazione pareva aspettare il criminale che, munito di manette, tra due carabinieri, scendeva con passo fermo diretto al Municipio . (...)Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno. Ci sono molti maiali, e le anfore si portano in bilico sulla testa. ( ...) La grappa non sanno cosa sia. (...) La spiaggia è sul Mar Jonio , che somiglia a tutti gli altri e vale quasi il Po."
Le lettere scritte dal confino ( circa cinquanta) Pavese le raccoglie in minuta in un " Quaderno del confino " ( pubblicate da un paio d'anni a cura di Mariarosa Masoero) e che , annota Lorenzo Mondo nell'ultima sua biografia pavesiana " Quell'antico ragazzo"( Rizzoli) "finisce per comporre una specie di romanzo epistolare , a tratti mirabile." Lo scrittore di S. Stefano Belbo riesce con una sottile ironia, che sarà la principale caratteristica di gran parte dell'epistolario, a darci un quadro realistico e suggestivo del paese ionico"ricco di vigne nascoste negli anfratti di terra" e con le nuvole " arrossate di piacere e di sole.Belle le donne dall'anfora in capo, ulivigna, foggiata sulla forma dei fianchi mollemente."
Atmosfere che ritorneranno poi in "Terra d'esilio" e ne " Il Carcere" che segnano il passaggio pavesiano dalla poesia alla prosa.
"La mattina attraversava il paese- la lunga strada parallela alla spiaggia- e guardava i tetti bassi e il cielo limpido, mentre la gente dalle soglie guardava lui. Qualcuna delle case aveva due piani e la facciata scolorita dalla salsedine. Tra una casa e l'altra appariva il mare ."
Ognuno di questi squarci sorprendeva ogni volta Pavese che a sera si sedeva davanti alla sua casa, sotto l'ombra del poggio e guardava la gente passare"con un lieve fruscio e qualche sussurro, talvolta in gruppi parlottanti." Piegava le gote sulla spalla " come se una mano lo carezzasse compiacente ."
Sono intrisi di malinconia i tanti momenti di solitudine pensosa e feconda descritti dallo scrittore nella noia di Brancaleone , quella noia che nell'inverno del 1935 segnò " l'inizio di nuove meditazioni sul suo mestiere di scrivere , dando vita ad un diario ( " Il mestiere di vivere"). Confessa nell'appendice di " Lavorare stanca " che " le poesie stanche scritte a Brancaleone sono forse le più belle del mazzo." , pur composte con inenarrabile noia" che, però , diventa la molla prima " di qualunque scoperta poetica , piccola o grande ."
Le poesie e i racconti ,oltre che il romanzo " Il Carcere" , ad una lettura attenta rivelano suggestive concordanze , echi e rimandi che danno alla prosa un coinvolgente ritmo poetico che non poco sorprese la critica del tempo per lo stile maturo raggiunto da Pavese.La descrizione che segue ci fa quasi sentire accanto all'illustre confinato piemontese:"Non faceva gran freddo per le strade, ma il mattino e la sera, nella stanza bassa, intirizzivano e costringevano a infilarsi un pastrano, quello che Stefano sin dalla primavera s'era portato sotto il braccio. Qualche volta era luce cenerognola, che raffiche di vento spazzavano. C'erano smorti pomeriggi di sole".
Oggi la produzione letteraria ispirata al confino può porsi al centro della poetica del mito che segnò in seguito gran parte dell'opera pavesiana. Personaggio dominante sarà la serva scalza Concia , la cui figura racchiude " emblematicamente come un germoglio, proprio in grazia della sua inafferrabilità e ambiguità , l'idea stessa del femminile secondo Pavese." ( Daniela Bisagno)-
Eccola ,Concia , girare in paese " con un passo scattante e contenuto, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprino con una sicurezza ch'era un sorriso." E' una figura che attraversa l'opera di Pavese e ritornerà sotto le vesti di una magra ragazza selvatica nei "Dialoghi con Leucò" ( La belva) e in " Feria d'agosto " ( Il colloquio del fiume).
Si capirà allora a fondo l'opera pavesiana se la si rileggerà sotto la luce mitica irradiata dal confino a Brancaleone , vera " isola" di un altrove che " è traccia di un'antica tensione e presenza scomparse".Un isola che Pavese si porterà sempre dentro, vero carcere della sua solitudine. Così come porterà sempre dentro di sé l'immagine del vecchio paese che lo faceva affondare nel tempo , con i suoi ulivi saraceni contorti che lui carezzava quasi fossero un amico ritrovato che gli " dicesse proprio la sola parola " che il suo cuore attendeva.
Scrive alla sorella Maria l'11 dicembre 1935:" Non capisco perché voglio tornare a Torino . Qui , a parte la pelle, sto benissimo, e le vere seccature cominceranno una volta a casa;non ultimi, i vostri piagnistei. Penso di sposarmi qui e comprare un bambino che a due anni dica già " cornutu" e " porcherusu".
E in data 26 dicembre 1935 aggiunge che certamente " il clima e il vitto mi dà al sangue. E' colpa dei peperoni e della latitudine" .
Mio padre quando preparavo la tesi di laurea su Pavese mi fornì inediti dettagli delle scampagnate che il professore faceva nelle nostre vigne ( il maresciallo Riccioppo , soprannominato " barbitta" , chiudeva un occhio perché Pavese dava lezioni di francese alla figlia tredicenne Jole)in compagnia di Angelino Palermiti , Mimmo Manglaviti e Pietro Spinella. Spesso si appartava e appuntava impressioni sugli immancabili libri che lo accompagnavano fedeli. Brancaleone Superiore gli ricordava i paesi abbarbicati sulle Langhe.Le scampagnate al paese vecchio si pianificavano nelle serate invernali passate dal fornaio Palermiti ,un nostro cugino che teneva sempre pronte cotolette di alici molto gustate dallo scrittore langarolo.Bastava avvertire mio padre tramite Ciccio Ciccione , calzolaio e gran affabulatore oltre che suonatore di chitarra. Nella casa grande era vera festa: nonna Mica offriva un saporitissimo ragù e maccheroni "filati" in casa a mano e il salame che non mancava mai. L'illustre ospite restava affascinato per queste attenzioni e senza indugio poteva scrivere alla sorella Maria in data 27 dicembre 1935 :
" La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. La spiaggia è intatta. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse , verdechiaro di fichindiani e agavi, rosa di leandri e gerani , a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunooliva".
Il vizio assurdo del male di vivere ogni tanto riemergeva mentre guardava il mare aspettando la sera, aspettando il mattino.. Amava alzarsi presto, ch'era ancora buio, e sentire il fiato del mare che addolciva il respiro.
E' l'atmosfera della poesia " Lo steddazzu" , che chiude " Lavorare stanca":" La lentezza dell'ora è spietata per chi non aspetta più nulla."
Pavese sa ormai che il ritorno imminente nell'aristocratica e fredda Torino lo allontanerà dal calore e dai colori sempre intatti dei Mari del Sud.
Mi par di vederlo mentre aspetta il treno con i giovani del posto, i cui occhi appaiono ancora più profondi e lampeggianti, dopo un ultimo giro veloce al Bar Roma per raccomandare di portare i saluti all'amico del cuore , Don Oreste Politi, il Giannino Catalano del Carcere , il cui riserbo e la cui amicizia lo accompagneranno fino agli ultimi giorni della sua vita. Per l'ultima volta dà uno sguardo al mare oltre il canneto , che pare gonfiarsi nel vuoto , e mentre il treno sbuca dalla curva fa in tempo a sbirciare ancora i muraglioni bianco sporchi del paese antico, quasi a portata di mano. Ebbe per un attimo " l'illusione che turbinassero nel vortice come foglie spazzate i visi e i nomi di quelli che non erano là."
Tutte queste atmosfere sono state immortalate dall'amico Mario Dondero, grande artista conosciuto in tutto il mondo. Anche lui prese parte al mio progetto concretatosi nel volume " I gerani di Concia" con le sue mirabili fotografie. Foto ricche di poesia che sono entrate nella vita , nella storia , nella geografia umana di Pavese. Ha saputo cogliere con la sua semplicità e il suo sguardo disincantato i sentimenti e le voci di dentro di questo nostro paese. Le sue foto restituiscono la vera anima di questa terra, autentica metafora del mondo .
Mi piace ricordare il ritratto mirabile che di lui ha fatti lo scrittore ligure Francesco Biamonti.
" Chi è Mario Dondero? Un uomo che crede che ancora che Parigi sia un fulcro del mondo e che ne fugge di continuo. Si è messo in testa di avere un forte, definitivo appuntamento con l'angelo della storia e corre qua e là a cercarlo, tre macchine fotografiche logore , consumate , appese alla spalla: dall'Africa salta in Siberia e poi te lo ritrovi a Parigi , in Liguria, di ritorno da qualche altra parte e in partenza per qualche altra ancora.L'ho visto fermarsi per strada, fermarsi incantato a guardare e fotografare un ramoscello, per una foglia che si venava di un geroglifico di morte. Tutti i grandi fotografi hanno l'aria stanca e stupita, di frustrati sognatori, ma sempre pronti a scattare per un minimo stormire. Fa una vita che stanca ma è la sua vita. Cordiale e lontano, già altrove, ferma l'attimo e nel contempo ha già l'aria di chiedersi : " Où sont les neiges d'antan ?".
Quando l'amico Pippo Callipo , con una grande sensibilità culturale e umana , mi ha invitato ad organizzare nel settembre 2008 , completamente a sue spese , un convegno per ricordare il centenario della nascita di Cesare Pavese ,la prima persona a cui ho pensato per dare un respiro europeo all'appuntamento di Vibo è stato Mario Dondero.
Con il peso dei suoi ottant'anni, la leggerezza della sua voce scese in Calabria per ricordarci la semplicità nascosta che la vita ci offre e che raramente sappiamo gustare.
La storia di Cesare Pavese in Calabria si è arricchita così di un nuovo, affascinante capitolo.
*Scrittore, saggista e critico letterario, Gianni Carteri è un profondo conoscitore della Calabria e dei letterati calabresi - di nascita o d'adozione - che l'hanno scelta come patria. I suoi testi su Corrado Alvaro e Cesare Pavese sono considerati un riferimento imprescindibile dalla critica letteraria nazionale. Vincitore del premio "Pavese" per la critica letteraria e del premio "Amantea", per la saggistica, Carteri ha di recente dato alle stampe la sua ultima fatica " Come nasce uno scrittore" (Città del Sole Edizioni), un sentito omaggio a Mario La Cava.