di Claudio Cordova - La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i ricorsi avanzati dagli imputati dello stralcio abbreviato del processo "Epilogo", celebrato contro la cosca Serraino di Reggio Calabria. Condanne definitive per gli affiliati al clan operante nella zona di San Sperato: la Suprema Corte infatti ha confermato in toto quanto stabilito il 29 maggio dello scorso anno dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria. Il collegio presieduto da Iside Russo condannò tutti e dodici gli imputati ritenuti responsabili a vario titolo di associazione mafiosa, danneggiamento e altri gravi reati. Nel dettaglio i giudici di secondo grado avevano inflitto a Francesco Russo, classe 1973, la pena di 12 anni e 8 mesi di carcere; in primo grado era stato condannato a 12 anni, ma i giudici hanno ritenuto la continuazione con un'altra sentenza, ossia quella relativa al processo "Mare e monti" in cui aveva avuto 3 anni di reclusione. Condannato a 9 anni e 8 mesi Antonino Barbaro; 8 anni e 8 mesi di carcere sono stati invece inflitti a Nicola Pitasi ed Ivan Valentino Nava; condanna a 7 anni e 10 mesi di reclusione ciascuno per Domenico Caccamo e Francesco Sgrò; 7 anni e e 8 mesi sono stati disposti per Antonino Pirrello, mentre 7 anni e 4 mesi di reclusione ciascuno sono stati inflitti a Francesco Russo, classe 1963, Giovanni Morabito, Sebastiano Pitasi e Domenico Russo. Infine, condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere Felice Lavena.
Condanne ratificate dalla Suprema Corte.
"Una monarchia ereditaria". Così il sostituto procuratore della Dda, Giuseppe Lombardo, aveva definito la cosca Serraino nella propria requisitoria del processo di primo grado. Il procedimento "Epilogo" scaturisce da un'operazione dei Carabinieri del settembre 2010, allorquando i militari dell'Arma andarono a colpire, con ventidue ordinanze di custodia cautelare, uno dei casati storici della 'ndrangheta reggina, la cosca Serraino, operante nei territori di San Sperato e Cardeto. Le indagini dei Carabinieri dimostreranno la capacità della cosca di infiltrarsi in gran parte delle attività economiche della zona, tramite richieste estorsive nei confronti di commercianti o piccoli imprenditori, ma anche con il diretto controllo delle aziende.
Sullo sfondo rimarranno anche i coinvolgimenti di alcuni esponenti politici della maggioranza di centrodestra, negli anni del "Modello Reggio".
Sul tavolo dell'accusa, oltre a una serie molto ampia di intercettazioni telefoniche e ambientali e di riscontri, frutto di attività di investigazione, troveranno posto anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Antonino Lo Giudice, Consolato Villani, Roberto Moio e Vittorio Fregona hanno infatti tracciato un quadro preciso e concordante delle attività illecite che il clan avrebbe messo in atto negli ultimi anni.
Sulla cosca, dunque, sono piovute condanne molto dure, a cominciare da quella rimediata da quell'Ivan Valentino Nava, ritenuto responsabile dell'incendio dell'auto del giornalista Antonino Monteleone, costituitosi parte civile nel processo. Il giovane Nava, che manderà i famosi baci al boss Peppe De Stefano, al momento dell'uscita dalla Questura, dopo l'arresto effettuato dalla Squadra Mobile, che porrà fine alla sua latitanza, paga dunque per l'incendio dell'autovettura del giornalista Monteleone. Un evento, registrato "in diretta" dalle cimici dei Carabinieri, messo in atto per "punire" un articolo apparso sul blog del reporter: "Quello che accade a Monteleone – disse il pm Lombardo nel proprio breve intervento – è l'esempio più lampante della debolezza umana. Nava e i suoi complici colpiscono il giornalista perché non riescono ad accettare che venga detta e scritta la verità".
I presunti capi dell'associazione, Alessandro Serraino, Demetrio Serraino e Fabio Giardiniere, hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario, arrivato finora solo alla sentenza di primo grado.