Il clan Iamonte di Melito Porto Salvo punito nell'appello del processo bis "Ramo spezzato"

reggiocalabria corte appello20 anni di carcere per Antonino Iamonte, 12 anni e 11 mesi per Sergio Borruto mentre 2 anni e 8 mesi sono stati comminati per Antonio Filippo Mafrici e Pietro Rodà. Questo l'esito del processo bis "Ramo spezzato", celebrato contro il clan Iamonte di Melito Porto Salvo e ritornato in Appello dopo il rinvio disposto nel 2013 dalla Corte di Cassazione. L'unico assolto in toto dalle accuse è stato invece il medico Francesco Cassano (assistito dagli avvocati Catanoso e Pino) che esce indenne dalla scure della Corte d'Appello reggina. Assolto anche dall'accusa di tentata estorsione, ai danni dell'imprenditrice Brunella Latella, in quel periodo proprietaria dell'azienda "Doc Market", coinvolta successivamente nell'inchiesta "Azzeccagarbugli", Carmelo Iamonte, il presunto boss di Melito Porto Salvo e dintorni nei cui confronti però la Corte ha confermato la condanna a 8 anni di reclusione, già precedentemente disposta dalla Cassazione.

Tra gli imputati figurava anche Domenico Tomasello. Per un mero errore la Corte non ha inserito,nel dispositivo, la propria decisione in merito alla posizione dell'indagato che pur figurando fra i soggetti che devono risarcire Saverio Foti non compare fra i condannati. Il processo per lui quindi è totalmente da rifare. Un'altra Corte d'Appello dovrà giudicarlo.

Il processo scaturisce da un'indagine del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Antonio De Bernardo, e da un'operazione della Squadra Mobile di Reggio Calabria che, unitamente al Commissariato di Condofuri, era andata a colpire gli affari della cosca Iamonte, una famiglia di macellai entrata, negli anni, nel gotha della 'ndrangheta, soprattutto grazie al traffico di stupefacenti. Un'inchiesta che ha potuto avvalersi di una cospicua quantità di intercettazioni telefoniche, sempre più indispensabili nei processi contro la criminalità organizzata, ma che ha potuto contare anche sulle dichiarazioni del testimone di giustizia Saverio Foti, un imprenditore che, stando alle carte, sarebbe stato vessato dalla cosca Iamonte e avrebbe deciso di rivolgersi alla giustizia per ottenere la punizione dei propri taglieggiatori. Il clan Iamonte avrebbe costretto Foti a consegnare 50mila euro, ma anche ad affidare la vendita, a terzi, di capi di bestiame- acquistati all'imprenditore con propri fondi ed in carico alla sua azienda- senza che lo stesso Foti potesse controllare e interloquire su questa attività o godere dei ricavi. Anche in questo grado di giudizio quindi Foti ha trovato giustizia e nei suoi confronti la Corte ha disposto che venga risarcito da Antonino Iamonte e Borruto.