"Route 106": tre clan in manette. Gratteri: "Ogni locale ha un controllo assoluto del territorio"

oproute106 - di Alessia Candito - "L'importanza di un'operazione non è data dal numero di arresti, ma dalla capacità che ha di dare una fotografia della realtà che indaga": sono queste le parole con cui il procuratore Nicola Gratteri, che ha coordinato l'indagine insieme al sostituto Antonio De Bernardo, ha presentato l'operazione che questa mattina ha fatto scattare le manette per Antonio Cataldo, Massimiliano e Francesco Fuda, Roberto Musolino e Natale Licari ritenuti responsabili, a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione ed intestazione fittizia di beni. Arresti frutto di un'operazione che è stata in grado di fotografare la realtà concreta delle relazioni economiche e commerciali fra cosche diverse - gli Alvaro- Licari di San Procopio (fascia tirrenica), i Bruzzese- Andrianò – Fuda di Grotteria e i Cordì di Locri, ma che si trovano direttamente o indirettamente a interevenire nel medesimo contesto.
Crocevia degli interessi dei tre clan e formale vittima delle angherie degli uomini del clan era infatti l'imprenditore Carlo Parasporo, impegnato con l'omonima ditta, nella realizzazione dei lavori della nuova S.S. 106, appaltati dalla società "Astaldi spa" nel tratto Ardore (RC) – Marina di Gioiosa Ionica (RC) e in quello di manutenzione straordinaria e regimentazione acque, lungo la strada provinciale San Procopio - Castellace tratto bivio Buggè od anche in quelli per la realizzazione della nuova 106 nel tratto Locri/Siderno. Lavori per i quali era costretto non solo a versare alla cosca Alvaro una "tassa di sicurezza" pari a seimila euro, ma anche a stipulare un contratto di nolo a freddo con l'impresa edile e di movimento terra "Musolino Roberto", formalmente intestata a Musolino, ma di fatto in mano ai Fuda. Ma Parasporo è solo formalmente una vittima dei clan, perchè delle cosche – sostengono gli inquirenti – lui e la sua ditta sono espressione.

Pur proveniente da una famiglia assolutamente "pulita", l'imprenditore è divenuto parente acquisito di Vittorio Parrotta, cognato del reggente dei Cataldo di Locri all'indomani della decapitazione della cosca avvenuta con l'operazione Primavera. Una parentela indiretta ma importante, che l'imprenditore – definito dal Procuratore capo Ottavio Sferlazza "una figura border line" - ha fatto pesare nei suoi affari, arrivando a macinare appalti su appalti nella Locride come nella Piana di Gioia Tauro. Ma non solo. Secondo quanto hanno accertato gli investigatori, oltre alla "protezione mafiosa", Parasporo era infatti in grado di avere anche un'interlocuzione privilegiata con altri esponenti dei clan attivi in altre aree della provincia di Reggio Calabria e la possibilità di contrattare termini e condizioni più convenienti in relazione alla protezione mafiosa sui cantieri.
Un trattamento di favore in sintesi, per un imprenditore dei potenti Cataldo di Locri e sul quale anche i Commisso di Siderno avevano esteso la propria ala protettrice, ma che fuori dalla zona di competenza dei clan, è comunque costretto a pagare. Ed è proprio questo per il procuratore aggiunto Nicola Gratteri, uno degli elementi più importanti dell'indagine " è la riprova che il controllo del territorio da parte di un locale è assoluto, anche se ci sono di mezzo uomini e ditte che fanno riferimento a un altro locale limitrofo o vicino".
Così come altrettanto interessante è per il procuratore capo Sferlazza, la possibilità che quest'indagine ha dato di inquadrare e distinguere giuridicamente la figura dell'imprenditore colluso da quella dell'imprenditore vittima dei clan. Proprio su Parasporo – per il quale la Procura aveva chiesto l'arresto per concorso esterno in associazione mafiosa - si è consumato lo scontro con il gip di Reggio Calabria, Barbara Bennato, che pur non lesinando giudizi poco piacevoli a carico dell'imprenditore, definito "un personaggio complesso, spregiudicato e inquietante" , non ha convalidato l'arresto chiesto dai pm. "L'immagine che si trae dalla lettura delle conversazioni versate in atti – si legge nell'occ firmata dal gip Bennato - è dunque quella di un imprenditore "scaltro", perfettamente consapevole degli assetti e delle dinamiche sottese al settore di operatività, quale quello degli appalti pubblici, storicamente ed ontologicamente inquinato da infiltrazioni mafiose. Un personaggio, per la verità, che da un lato non lesina apprezzamento e considerazione dei capi delle famiglie di 'ndrangheta e che, proprio perché perfettamente consapevole della mafiosità di certi personaggi, è in grado di individuare "le persone che contano" e di proporre al loro cospetto l'immagine di imprenditore solido ed affidabile, dall'altro non cela il biasimo e la disapprovazione di un sistema estorsivo così imponente cui obtorto collo è costretto a soggiacere". Una valutazione dura ma che per il gip non è stata sufficiente per una formale incriminazione, perchè – ha riferito Sferlazza - non consentirebbe di desumere che la sua condotta sia qualificabile in termini di reale (consapevole e voluto) rafforzamento o consolidamento dell'associazione mafiosa, uno dei cardini del reato di concorso esterno.Un provvedimento – ha annunciato Sferlazza – che " dopo un'attenta lettura delle motivazioni", la Procura valuterà se impugnare".