Il pentito Fiume: "I De Stefano, la Reggio Bene e la supervisione su Multiservizi"

fiumeninobisdi Claudio Cordova e Alessia Candito - Passa dagli omicidi commessi per conto dei De Stefano alle serate in discoteca con la "Reggio Bene" con grande disinvoltura. Solo una volta Nino Fiume, si ferma, prende fiato, si commuove. Quando parla dell'omicidio di un ragazzo freddato a pallettoni, per la precisione decapitato da una fucilata a pallettoni. Il collaboratore di giustizia, per anni braccio destro di Peppe De Stefano, ripercorre, nella sua seconda uscita nell'ambito del maxiprocesso "Meta", le sue immense conoscenze negli anni in cui ha svolto un ruolo fondamentale nelle dinamiche mafiose cittadine.

LA CUPOLA

E' lui – fidanzato storico dell'unica figlia di don Paolo De Stefano - uno dei testimoni chiave dell'accusa, sostenuta dal pubblico ministero Giuseppe Lombardo. E' proprio Fiume che parla del nuovo ruolo di Peppe De Stefano, il "Crimine", quel ruolo che il figlio di don Paolino avrebbe ricevuto in carcere all'inizio degli anni 2000: "C'è un nuovo assetto criminale di Reggio Calabria, con a capo Peppe De Stefano – ha detto all'inizio della lunghissima udienza all'interno dell'aula bunker – e in questo quadro, Domenico Condello, detto "Gingomma", aveva un ruolo rilevante, era "a disposizione" di Peppe De Stefano". Stando all'impostazione accusatoria, infatti, dopo la seconda guerra di mafia degli anni 1985-1991, le cosche reggine si sarebbero date un nuovo ordine. E a partire dagli anni 2000, al vertice di un "direttorio" composto dai De Stefano, dai Tegano, dai Libri e dai Condello si sarebbe elevato proprio Peppe De Stefano, che, collegato in videoconferenza dal carcere di Tolmezzo, non perde una virgola delle frasi di Fiume: "Ricordo anche molte partite di calcetto a cui partecipavano persone dei Condello e dei De Stefano insieme. La superassociazione era stata già creata e fra Domenico Condello, "Gingomma" e Giuseppe De Stefano c'era un rapporto molto stretto". Rispondendo tanto alle domande del pm Lombardo, tanto degli avvocati Marcello Manna e Francesco Calabrese (difensori, rispettivamente, di Peppe De Stefano e Pasquale Condello) Fiume è chiarissimo: "Al vertice della Cupola c'è Peppe De Stefano".

L'ARSENALE

Già prima della sua collaborazione con la giustizia, iniziata nel febbraio 2002, per Fiume la superassociazione esisteva. Fiume, infatti, si consegnerà in Questura il 27 febbraio e porterà con sé un borsone pieno zeppi di armi. Sarà lui che, con le sue dichiarazioni, farà recuperare agli investigatori l'arsenale della cosca De Stefano: "Io custodivo armi civili e militari – dice rispondendo alle domande del pm Lombardo - una parte le tenevo io, un'altra parte – soprattutto quelle che avevano bisogno di manutenzione – in una casetta dei Campolo. Io dicevo a Giovanni De Stefano di non tenere armi a portata di mano, soprattutto l'M12 che doveva servire per uccidere l'agente della Polizia Penitenziaria Falcone. C'erano armi pulite e sporche, la maggior parte di queste venivano dal crotonese. Nino Scaramuzzino, un agente penitenziario amico nostro, le portò da Crotone. Altre armi le portavamo noi da Milano". Armi civili e armi da guerra: fucili, mitragliatori, kalashninkov, carabine. I De Stefano avrebbero potuto contare su un vero e proprio arsenale, ma anche su persone assai abili nel maneggiare le armi: "Riccardo Partinico si era inventato falsi tesserini del Noe – racconta Fiume - e simulando di aver smarrito il porto d'armi, si faceva consegnare dei duplicati a cui poi noi sostituvamo nome e fotografie . Con questi documenti falsi andavamo alle armerie". Armi che la cosca era in grado anche di modificare e sbloccare. Ad occuparsene era  Pasquale Gatto, tanto pratico di armi che – dice Fiume quasi con ammirazione - "riusciva a modificare anche  i kalashninkov".
Armi "pulite" e armi "sporche".  Da tenere sempre a disposizione, da usare o da scambiare per alimentare quella grande "Banca dei favori dell ndrangheta" cui il collaboratore ha più volte fatto riferimento. "Le armi – afferma con sicurezza Fiume -  si scambiavano con il crotonese, con il cirotano, con il lametino"Ma nell'arsenale dei De Stefano, c'erano anche armi "strane". Come quegli M12 "che seguivano una strada particolare, non avevano matricola, non è che erano abrase, non ce l'avevano proprio". O anche quelle armi scottanti, utilizzate per omicidi eccellenti e che Carmine De Stefano avrebbe custodito con cura: "C'erano due mitragliette, due mini-Uzi che Carmine De Stefano mi disse di custodire bene perchè erano state utilizzate per un omicidio eccellente di un personaggio istituzionale a Roma". L'ennesima conferma  di un impero – quello dei De Stefano  - che si estendeva ben oltre i confini di Reggio Calabria e di partite - importanti - che gli arcoti hanno giocato su tavoli che andavano ben oltre  la galassia delle ndrine reggine.

LA STRATEGIA CONTRO I MAGISTRATI

Partite che implicavano una strategia molto più raffinata di quella di "attacco allo Stato" proposta dai clan di Cosa Nostra alle ndrine calabresi nei primi anni  Novanta. Al di là della "cortesia" dell'eliminazione del giudice Scopelliti, fatta ai "cugini siciliani", avallata anche dai De Stefano, la cosca degli arcoti non avrebbe mai pensato di eliminare magistrati e soggetti istituzionali in Calabria, la strategia era quella di avvicinare i giudici e, qualora questi si fossero opposti, di iniziare l'opera di delegittimazione: "Come gruppo criminale non abbiamo mai pensato di attentare alla vita di un magistrato. Ma nel periodo della guerra, nella zona in cui è stato ucciso il giudice Scopelliti, c'è stato un tentativo di attentato nei confronti di due uomini degli Imerti che si  salvarono miracolosamente, nonostante fossero stati sparati numerosi colpi. Le armi di quell'omicidio vennero buttate sotto un cavalcavia a Santa Trada. Qualche tempo dopo vennero ritrovate e la stampa disse che erano per un attentato a Boemi, ma non avevano nulla a che fare con questo".

LA "REGGIO BENE"

Ma anche quando parla di armi e di omicidi, nel racconto di Fiume entra, sempre e comunque, la "Reggio Bene", quella che continuerebbe ad abbeverarsi all'ombra della massoneria in un letale abbraccio con la 'ndrangheta: "Anche la Reggio Bene era coinvolta, in un modo o nell'altro, in fatti di armi e fatti di sangue. Se Peppe De Stefano chiedeva a uno dei ragazzi della Reggio bene come Cama di andare a Lecco a prendere uno zainetto, lui ci andava  senza chiedere". Sì, perché la casa storica dei De Stefano ad Archi sarebbe stata, negli anni, una delle più amate dai reggini: "I fratelli De Leo sono cresciuti con noi, prima di essere mandati negli Stati Uniti, i fratelli Grillone, sapevano pure dove tenevamo le armi, poi le forze dell'ordine hanno chiamato i genitori  per metterli sull'avviso. C'è sempre stato un avvicendamento fra varie generazioni che si vestivano nello stesso modo, frequentavano gli stessi locali e le stesse feste, ma la Reggio bene ha sempre cercato i fratelli De Stefano". E della "Reggio Bene" avrebbe fatto parte, ovviamente, anche la politica. Ma se sui nomi dei politici Fiume, "stoppato" dal pm Lombardo che parla di "indagini in corso", si guarda bene dall'essere completo, il collaboratore, in realtà, lascia intendere quale fosse il "sistema" ruotava attorno ai De Stefano: "Ricordo che Peppe De Stefano mi disse di non frequentare un politico che aveva amicizie nei servizi segreti".

LE FESTE

E i luoghi che la Reggio bene e i fratelli De Stefano frequentano, e che Fiume ricorda continuamente nel corso della propria deposizione, sono sempre gli stessi: l'Oasi dell'amico Pino Scaramozzino, ma anche il Papirus e il Limoneto. Sono gli anni successivi alla seconda guerra di mafia, Reggio Calabria era una città totalmente da ricostruire, le attrattive sono poche e i locali sono ancora pochi. Locali come quello dell'imprenditore Antonino Crisalli, oggi imputato nel procedimento: "Nino lo conosco da quando ero ragazzino – racconta Fiume - lo frequentavo da una vita, è sempre stata una persona disponibile e amica con tutti. Una volta con Carmine De Stefano stavamo andando al Limoneto, nell'83, ma alla porta c'era Marcello, un tripodiano che non ci ha fatto entrare. Paolo il Biondo, cugino di Carmine, venne di corsa, massacrò di botte questo qui e disse a Nino Crisalli di dire una cifra perchè Paolo De Stefano voleva comprarsi il locale. Crisalli offrì champagne a tutti per scusarsi". Nino Crisalli, a detta di Fiume, era uno che ben sapeva stare al mondo: "Era sempre stato un personaggio molto accorto e molto riservato, ma con me non ha mai parlato di soldi. Mi ha specificato che aveva contrattato [OMISSIS] come pierre per fare un favore a Dimitri De Stefano, ma nulla di più". Ed è proprio in questo periodo che Fiume racconta di aver conosciuto praticamente tutta la "Reggio Bene", in cui Crisalli, a suo dire, era pienamente inserito. Tanto che a frequentare il Limoneto,  c'era anche quello che di lì a poco sarebbe diventato il sindaco di Reggio. "Lo frequentavo con Peppe Scopelliti, ma poi ho smesso di andarci" si lascia scappare il collaboratore in una frase incidentale. Una circostanza già emersa molti mesi fa, che l'attuale Governatore ha ammesso, pur collocando la frequentazione in un'altra nota discoteca della  città – il Papirus – ma specificando di non aver mai avuto altro tipo di ruolo in combutta con Fiume che a Crisalli ha anche dato "una mano", nel periodo in cui "un gruppo di cani sciolti, della zona di Bova, che aveva fatto anche alcune rapine  aveva iniziato a fare guai nei locali della città. Io stavo dando una mano a fare da buttafuori, ma poi venni richiamato da Peppe, che mi ha detto queste cose non si fanno, vieni a Messina, ti do un assegno e quel locale te lo compri". Corsi e ricorsi storici. Del resto, Peppe eredita nei primi anni del 2000 quel ruolo che fino alla fine degli anni '80 era stato del padre Paolo, con una differenza: se don Paolino era un monarca incontrastato e riconosciuto da tutti, il figlio doveva comunque relazionarsi con quella superassociazione che aveva nel quadriumvirato Libri- De Stefano – Tegano – Condello i  propri pilastri indiscussi.

Ma se le condizioni erano cambiate, il modus operandi dei De Stefano era rimasto il medesimo:  quando c'era un problema tutto si risolveva, prima mettendo i puntini sulle i e poi con il portafogli alla mano. E sarebbe proprio questa capacità di unire i metodi dei gangster a quelli dei broker ad aver permesso loro di conquistare la città.

QUEGLI INCONTRI CON PINO RECHICHI

E la città i De Stefano l'avrebbero conquistata anche tramite l'insediamento nelle attività commerciali e nella pubblica amministrazione. Inquietanti, in tal senso, sono le circostanze raccontate da Fiume che ricorda quelli che potrebbero essere stati i primi vagiti della Multiservizi, la società mista del Comune di Reggio Calabria, sciolta di recente per infiltrazioni mafiose e che potrebbe portare, insieme a tanti altri rilievi consegnati poche ore fa dalla commissione d'accesso, allo scioglimento del Comune: "Sull'affare della Comedil (una delle società che, nel corso degli anni, avranno un ruolo all'interno di Multiservizi, ndi), ci fu la supervisione di Peppe De Stefano – dice Fiume – ricordo che con Pino Rechichi ci recammo a Messina col gommone proprio per parlare con Peppe". Ma gli incontri con quello che sarebbe divenuto il direttore operativo di Multiservizi (attualmente in carcere per associazione mafiosa) sarebbero avvenuti, tanto per cambiare, anche all'interno dell'Oasi Village degli Scaramozzino: "Venne a salutarci anche un poliziotto che ora fa la scorta a un politico molto noto". E se Fiume afferma di non sapere quale fu l'evoluzione delle cose, sicuramente gli ultimi sviluppi su Multiservizi lasciano più di qualche dubbio.

LA MANO NERA

Un sistema complesso,  che solo le regole ferree dettate al termine alla seconda guerra, riusciva a mantenere. Un sistema che a detta del pentito aveva in Pasquale Libri il principale garante. E la vicenda della "Mano Nera", un marchio che segnava, tanto un serie di missive inviate negli anni, tanto i cartelli dei cantieri, segnerebbe il "nuovo corso" nella gestione degli appalti. Missive estorsive che per un certo periodo iniziarono ad arrivare ad alcuni noti imprenditori come Macheda o Frascati e che sembravano voler accreditare l'esistenza di una nuova organizzazione che dettava le regole a Reggio città. E la nuova organizzazione era proprio quella del nuovo "direttorio" tra cosche che, fino a pochi anni prima si erano date battaglia per le strade cittadine in una mattanza che lasciò sul selciato circa settecento vittime. Nuovi assetti di cui sarebbero stati vittima anche imprenditori molto noti in città, come i Macheda del Cordon Bleu: "Non ho mai saputo chi è che sparò al Cordon Bleu – dice Fiume - io consegnai la pistola a Gianfranco Giunta (lo stesso avvocato, oggi presente in aula, che Fiume tirò in ballo pochi giorni fa) e poi Giunta, la diede a Giovanni De Stefano".

REGGIO CALABRIA COSC TO COSC

Ma Reggio Calabria, o meglio, la Reggio Calabria criminale, Fiume la conosce a menadito. Ndrina per ndrina. Dalle più importanti - Imerti, Alvaro – a quelle minori – Greco, Creazzo, Rugolino.
Killer per killer. Come  Roberto Moio. "Lo conosco fin da quando era ragazzino – dice il pentito - Era riconosciuto come killer e frequentava casa De Stefano nel periodo della guerra". . Moio era uno dei tanti sicari al servizio della cosca Tegano, ma poi – grazie al matrimonio- fa il salto di qualità. Da "nipote acquisito" Moio diventa uno degli uomini fondamentali della cosca Tegano  nella New Labor, la ditta che aveva l'appalto per la pulizia dei treni. "Una cosa che faceva imbestialire De Stefano perchè diceva che questi soldi non venivano gestiti e proprio per questo Moio ha rischiato la vita, era nella lista delle persone da eliminare che Peppe De Stefano aveva stilato. C'erano gelosie con i Tegano". Non si fidavano i De Stefano, neanche degli alleati. Tanto da fornire agli Zito una valigetta di cimici e microspie, con le quali avevano in programma di spiare i Bertuca. Due cosche  che hanno sempre vissuto in simbiosi, da sempre si sono spartite Villa al 50% e i cui capi hanno trascorso anche la latitanza insieme in un appartamento dietro al Ritrovo Morabito, ma che erano finite a sospettare l'una dell'altra. Del resto erano cosche minori, che sarebbero state chiamate a sedere alla tavola imbandita dei grandi affari – il centro commerciale Perla dello Stretto, i lavori del Ponte – ma senza averne la responsabilità. A Villa, per i lavori importanti, come il costruendo Ponte sullo Stretto – ricorda Fiume –  il quadriumvirato aveva già stabilito che ad occuparsene sarebbe stato Santo Crucitti. Cosche minori come quelle dei Lo Giudice: "All'inizio della guerra di mafia – dice Fiume – sparavano per noi, poi gli venne ucciso un fratello e passarono con Pasquale Condello. Io, però, avevo ribrezzo per loro perché praticavano usura, lo stesso mio zio fu istigato al suicidio dai Lo Giudice che lo pressavano con le loro richieste". Una famiglia che, comunque, sarebbe stata tutt'altro che nelle grazie dei De Stefano: "So che una donna, si chiamava Angela, si era invaghita di Peppe De Stefano, poi ho saputo che l'hanno fatta scomparire per altri motivi" il chiaro riferimento alla giovane Angela Costantino.

"HANNO TENTATO DI AMMAZZARMI"

Parla tanto Fiume, per qualcuno pure troppo. Ma le sue parole sono frutto di un patrimonio conoscitivo accumulato negli anni al fianco di Peppe De Stefano e arrivano al termine di un percorso di collaborazione tutt'altro che facile a suo dire: "Ho avuto dei problemi di salute per qualche tempo dopo la mia collaborazione" risponde all'avvocato Manna che, per conto di Peppe De Stefano, prova a demolirne l'attendibilità. Nel corso del controesame del legale, infatti, viene anche paventata l'ipotesi che tutte le informazioni trasmesse dal "Crimine" De Stefano a Nino Fiume fossero in realtà false, dovute al fatto che De Stefano non si fidasse più del proprio braccio destro armato: "Per tre volte misero in giro la voce che ero un confidente – racconta Fiume – una volta mi dissero che fu l'avvocato Enzo Caccavari, che difendeva il deputato Amedeo Matacena perché avevano paura che lo tirassimo in ballo nella vicenda dell'omicidio Spinella, cosa che non avevamo assolutamente intenzione di fare".

E nel corso del proprio percorso collaborativi, denuncia per la prima volta Fiume, qualcuno gli avrebbe anche voluto fare la pelle. Un altro collaboratore di giustizia, in particolare, a suo dire avrebbe messo in atto un attentato domestico contro di lui, lasciando il bocchettone del gas aperto per favorire un'esplosione. Fiume, che ammette di aver trascorso la detenzione con altri pentiti, tra cui il celebre Giacomo Lauro, afferma di convivere con la possibilità di essere ucciso e ciò l'avrebbe detto anche alle persone che, negli ultimi anni, gli sono state più vicine: "Anche al dottor Lombardo ho detto stia attento che ci ammazzano".

Ma Nino Fiume va avanti e preannuncia che, anche se al momento ha rifiutato ogni contatto con i media, prima o poi, scriverà un libro perché "le cose della vita o qualcuno le racconta o non si sapranno mai".