di Claudio Cordova - Qualcuno ebbe anche l'ardire di sostenere che i Lo Giudice non erano e non sono una cosca di 'ndrangheta. Ma la pioggia di anni di carcere che piove su Luciano e sugli altri imputati ristabilisce la verità: il Tribunale presieduto da Silvia Capone accoglie l'impianto accusatorio portato avanti dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi, comminando pene durissime nei confronti dei soggetti alla sbarra: a cominciare da Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale del clan, punito con 20 anni di reclusione. Ma il Tribunale (composto anche da Maria Teresa De Pascale e Margherita Amodeo) non fa sconti per nessuno: 18 anni ad Antonio Cortese, considerato l'armiere del clan, 16 anni ciascuno a due soggetti assai influenti nella cosca, Giuseppe Reliquato e Bruno Stilo. E, ancora, 13 anni a Salvatore Pennestrì e 10 a Fortunato Pennestrì. Pene inferiori, ma pur sempre esemplari, per i reati contestati, a Giuseppe Lo Giudice (7 anni e 6 mesi) e Giuseppe Cricrì, punito con 4 anni e 6 mesi. Ma il Tribunale, al termine di un processo durato diversi anni, ha riconosciuto la sussistenza della responsabilità penale anche nei confronti del Capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, considerato uno dei soggetti istituzionali con cui Luciano Lo Giudice sarebbe stato in contatto. E, infine, 6 anni di reclusione all'imprenditore Antonino Spanò, condannato perché considerato il trait d'union tra Luciano Lo Giudice e le Istituzioni stesse.
Solo due assolti, Antonino e Rocco Arillotta. Si conclude così un processo che in tanti proveranno a ostacolare. Il Tribunale ha anche disposto la trasmissione degli atti, per il reato di falsa testimonianza, con riferimento alle deposizioni dell'ex capo del Ros, il Colonnello Valerio Giardina, del suo vice Gerardo Lardieri e del carabiniere Francesco Maisano, che sarebbe stato in rapporti confidenziali con Luciano Lo Giudice.
Si conclude con una vittoria del pubblico ministero Beatrice Ronchi, che ha affrontato da sola l'intero dibattimento, scontrandosi con le forze (oscure) che lottano invece per il mantenimento dello status quo. Non era sola alla lettura del dispositivo, però, quando al suo fianco aveva il procuratore capo, Federico Cafiero de Raho, e il capo della Squadra Mobile, Gennaro Semeraro.
Un segnale, come per sottolineare la prosecuzione dell'azione della magistratura. Un'azione che il pm Ronchi, nella propria lunghissima requisitoria (dipanata nel corso di varie udienze) ha definito del "dopo", a fronte di un "prima", considerato torbido e non sempre immune da responsabilità. Nel corso delle indagini e del dibattimento, infatti, emergeranno i collegamenti istituzionali tra Luciano e i giudici Alberto Cisterna e Francesco Mollace: intercettazioni telefoniche e ambientali, in cui Luciano farà riferimento al famigerato "avvocato di Roma" (Cisterna) e allo "Zio Ciccio" (Mollace). Saranno loro - secondo la Procura - i magistrati "amici" del clan, su cui Luciano avrebbe fatto affidamento nei momenti difficili. Tutti passaggi valorizzati dal pm Ronchi nel corso della propria lunga requisitoria. Il magistrato, infatti, ha più volte distinto tra il "prima" e il "dopo" dell'azione investigativa della Dda di Reggio Calabria: un "prima" in cui il clan Lo Giudice, proprio in virtù di queste cointeressenze, avrebbe goduto di una vera e propria immunità giudiziaria.
La posizione più pesante sarà sempre quella dell'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia, Alberto Cisterna. Sarebbe stato lui, nel 2004, il tramite tra Luciano Lo Giudice, giovane rampollo di una nota cosca mafiosa, e il Colonnello Ferlito: Lo Giudice avrebbe dovuto fornire alcune indicazioni per arrivare alla cattura di Pasquale Condello. E così i tre si sarebbero incontrati prima a Fiumicino e poi, alcuni giorni dopo, nel cantiere nautico di Antonino Spanò, considerato dagli inquirenti un prestanome di Luciano Lo Giudice. "Da considerare sono solo le relazioni di servizio del tempo e non le contraddittorie dichiarazioni fornite in aula dai protagonisti" afferma il pm Ronchi. Un 2004 intenso, quello di Luciano Lo Giudice: nel giro di poche settimane acquisterà delle armi, mantenendo comunque rapporti con le Istituzioni e fornendo soffiate ai Servizi Segreti. Soffiate che, comunque, non porteranno a nulla. "Perché allora Luciano Lo Giudice penserà sempre di avere un credito con Alberto Cisterna?" si chiederà il pm Ronchi. Una domanda che significa tanto, ma che, ancora, contiene diversi punti oscuri a detta del pm. Tanti i contatti tra Luciano e Cisterna, documentati dal pm Ronchi: un centinaio tra il 2005 e il 2007, senza contare quelli intercorsi tra lo stesso Luciano e l'autista di Cisterna, quasi sempre nei giorni in cui il magistrato in servizio a Roma sarebbe tornato a Reggio Calabria. Luciano Lo Giudice avrebbe invocato l'aiuto di Cisterna in almeno cinque occasioni: per un controllo su strada avvenuto nei pressi di Motta San Giovanni; per la scarcerazione del fratello Maurizio Lo Giudice; per le visite necessarie alla cura della malattia del figlio; per un controllo della Polizia Amministrativa all'interno del bar "Peccati di Gola"; ma, soprattutto, per intervenire dopo l'arresto, subito nell'ottobre 2009. Da quel momento, infatti, Luciano si sarebbe appigliato ai presunti referenti istituzionali, ma soprattutto a Cisterna, cui scriverà dal carcere. E sono tanti i riferimenti, sia all'ex numero due della DNA (trasferito a Tivoli in via cautelare proprio per i rapporti con Luciano) sia allo "Zio Ciccio", Francesco Mollace: "Preferisco impiccarmi anziché accusare i magistrati" dirà Luciano Lo Giudice. In un colloquio in carcere, invece, il suo ex legale, Giovanni Pellicanò, darà una chiave di lettura eloquente sull'arresto: "Si sono rotti gli equilibri precedenti".
Luciano Lo Giudice, dunque, avrebbe ottenuto l'impunità grazie alle proprie amicizie pesanti e grazie al proprio ruolo di confidente. Un ruolo che si sarebbe protratto ben oltre i contatti del 2004 con i Servizi Segreti. Il pm Ronchi, infatti, documenterà il ruolo del clan Lo Giudice anche nel periodo della ricerca del superlatitante Pasquale Condello. Sarà il Ros dei Carabinieri del Colonnello Giardina a far leva sulle soffiate fatte al brigadiere Ciccio Maisano, detto "Falcao". Giardina e il suo vice, Lardieri, negheranno l'apporto di fonti confidenziali, sia nel processo Lo Giudice, sia nel processo "Meta". Proprio sull'indagine "Meta", il pm Ronchi inserisce alcuni punti di verità su quelle che definisce "stupide polemiche" degli ultimi anni: "Si tratta di procedimenti autonomi che non sono in conflitto". Tuttavia, in contrasto con le affermazioni di Giardina e Lardieri, arriveranno le plurime dichiarazioni dei sottoufficiali, che parleranno di un'accelerazione delle indagini a pochi mesi dalla cattura (febbraio 2008) e dell'utilizzo di fonti confidenziali, tra cui anche Luciano Lo Giudice. Sulla scorta delle soffiate a "Falcao" Maisano, il Ros effettuerà anche un'imponente perquisizione in uno stabile, avendo quasi la sicurezza di rintracciare il "Supremo".
Anche in questo caso, però, tutto si concluderà con un buco nell'acqua.
Quando l'immunità (e l'impunità) sarebbe venuta meno con l'arresto di Luciano, dell'ottobre 2009, la cosca Lo Giudice avrebbe scatenato il putiferio in città, colpendo la magistratura reggina, a cominciare dall'attentato alla Procura Generale, del 3 gennaio 2010. Ricostruzioni che la Dda farà anche sulla scorta delle dichiarazioni del collaboratore Consolato Villani, ma, soprattutto, del controverso Nino Lo Giudice, il "Nano" prima pentito, poi fuggito (con ritrattazioni e accuse ai magistrati) e infine nuovamente arrestato.
Il "prima" e il "dopo" del metodo investigativo reggino, ma anche del mondo di intendere il ruolo di magistrato e di ufficiale di polizia giudiziaria: "Dal 1991 in poi – dice il pm Ronchi – i Lo Giudice verranno dimenticati e nel frattempo fioriranno le loro attività imprenditoriali. "Si preferirà avere fonti confidenziali, tra queste Luciano Lo Giudice, che maturerà la propria convinzione di godere di impunità da parte degli inquirenti" dirà il pm Ronchi, stigmatizzando la scarsa attenzione (per usare un eufemismo) sul clan.
Un procedimento discusso anche all'interno della stessa Procura: non pochi sono stati i malumori all'interno dell'Ufficio, per le risultanze dell'indagine e del processo. Risultanze che, in sede di giudizio abbreviato, erano già state avvalorate e valorizzate con sentenza di primo e di secondo grado, nonchè con un'indagine parallela della Procura di Catanzaro, riguardante gli attentati alla magistratura. Il pm Ronchi, quindi, è andata avanti per la propria strada, dimostrando, carte alla mano, una serie di incongruenze, anche con riferimento alla cattura del superboss Pasquale Condello, il "Supremo".
Il confronto tra il "prima" e il "dopo" introduce il tema su cui il pm antimafia spingerà maggiormente: i rapporti istituzionali di Luciano Lo Giudice. Da Franco Mollace ad Alberto Cisterna, passando per il Capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, il brigadiere del Ros, Ciccio Maisano, e il Colonnello dei Servizi Segreti, Michele Ferlito. Luciano Lo Giudice, infatti, sarebbe diventato una fonte confidenziale, prima dei Servizi Segreti e poi del Ros, rimanendo, di fatto, immune dalle indagini. E questo nonostante le informative sul conto del clan Lo Giudice fioccassero: il pm Ronchi cita quelle del Ros di Valerio Giardina al magistrato Mollace nell'ambito dell'indagine "Vertice".
"Eppure Giardina dice di non essersi mai occupato dei Lo Giudice" afferma con amarezza il pm Ronchi. Amarezza. E' un sentimento ricorrente nelle parole del magistrato, che sottolinea l'atteggiamento dei testimoni Alberto Cisterna e Francesco Mollace, magistrati, ma anche degli ufficiali di polizia giudiziaria, il poliziotto Renato Panvino, i Carabinieri Valerio Giardina e Gerardo Lardieri, lo 007 Michele Ferlito: "Ci hanno lasciato senza parole – dice il pm Ronchi – facendo emergere un contesto anomalo non totalmente chiarito". In tal senso si incastrano le figure del magistrato Cisterna, ma anche di altri membri delle Istituzioni: dal Colonnello dei Servizi Segreti, Michele Ferlito, al brigadiere Francesco Maisano ("Falcao"), che avrebbe avuto Luciano Lo Giudice come fonte confidenziale, fino al Colonnello Valerio Giardina, ex capo del Ros che catturerà Condello.
Proprio per il Colonnello Valerio Giardina, per il suo vice e più stretto collaboratore, Gerardo Lardieri, e per Maisano, il Tribunale ha disposto la trasmissione degli atti per valutare i profili di falsa testimonianza, con riferimento alle dichiarazioni rese in aula.
Dal processo, dunque, emergerà un clan, quello dei Lo Giudice, che per anni non sarà attenzionato dagli inquirenti e che, quindi, riuscirà a metter su un impero, grazie alle capacità di Luciano Lo Giudice: tra le attività riconducibili al fratello del "Nano", il bar-cornetteria "Peccati di Gola", ma anche le aziende degli Arillotta, nonché il cantiere nautico di Nino Spanò. Una potenza che – secondo la Dda – il clan avrebbe costruito grazie alle connivenze istituzionali con i magistrati, ma anche con il Capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, che avrebbe avuto un rapporto continuativo con Luciano, fatto di favori e rivelazioni reciproche.