Processo "Meta": tutti condannati i capi della 'ndrangheta di Reggio Calabria

sentenzametadi Claudio Cordova (foto di Adriana Sapone) - Una sentenza destinata a rimanere nella storia. Dopo anni di dibattimento, decine di testimonianze, e una camera di consiglio durata quasi cinque giorni, il processo "Meta" conclude il proprio primo grado di giudizio con una decisione affossante per gli imputati alla sbarra. Pene esemplari quelle emesse dal Collegio presieduto da Silvana Grasso (Mariateresa De Pascale e Natalino Sapone a latere).

Il Tribunale ha comminato 20 anni per Pasquale Condello, 27 anni per Giuseppe De Stefano, 20 anni ciascuno per Giovanni Tegano e Pasquale Libri. Pene esemplari per i quattro boss, ma anche per gli altri imputati 17 anni e 9 mesi per Cosimo Alvaro, il boss di Sinopoli giunto in città per controllare i locali della movida, 23 anni per Domenico Condello. detto "Gingomma", 21 anni per Antonino Imerti (cugino del "Nano Feroce"), 16 anni per Domenico Passalacqua, 10 anni per Stefano Vitale e 13 anni per Natale Buda, 16 anni per Umberto Creazzo, 23 anni per Pasquale Bertuca, 18 anni e 8 mesi Giovanni Rugolino, 3 anni e 6 mesi per Antonio Giustra, 3 anni per Carmelo Barbieri, 6 anni per Antonino Crisalli, 4 anni e 6 mesi per Rocco Palermo. Il Tribunale ha inoltre disposto un pagamento di due milioni di euro per le Istituzioni costituite parte civile e 500mila euro per l'associazione Libera.

Un processo nato dall'operazione del Ros dei Carabinieri, che scatterà nel giugno 2010.

Un'ipotesi investigativa (e poi accusatoria) ambiziosa: dimostrare come le principali cosche di Reggio Calabria – i De Stefano, i Tegano, i Condello e i Libri – si fossero trovate d'accordo nel comporre una sorta di direttorio, con a capo Giuseppe De Stefano, per gestire in maniera automatizzata (e indisturbata) il giro delle grandi estorsioni e dei grandi appalti. Sarebbero le "nuove regole" che proprio Peppe De Stefano, figlio di don Paolino, carismatico boss ucciso agli albori della seconda guerra di mafia reggina, avrebbe portato in città, per controllarne ogni respiro della vita sociale, economica e politica. Quattro grandi cosche che, dopo la mattanza scatenatasi dal 1985 al 1991, avrebbero trovato la pace, ma, soprattutto, sarebbero state in grado di guardare in faccia la modernità, dandosi un nuovo assetto.

Condanne dure per tutti: dai boss del "direttorio", a Cosimo Alvaro, l'uomo venuto da Sinopoli per controllare le attività economiche e per gestire i rapporti con la politica, fino ai presunti capi della periferia, come Giovanni Rugolino, e dell'hinterland, come Nino Imerti o Pasquale Bertuca. Condannato anche il celebre imprenditore Antonino Crisalli, punito per alcuni episodi di turbativa d'asta. 

Lo stralcio degli abbreviati, già arrivato alla conclusione del procedimento d'appello, sancirà l'esistenza della super-associazione contestata dalla Procura. Sarà, in particolare, la sentenza di primo grado, emessa dal Gup Adriana Trapani, a entrare nel merito. Una super-associazione, un "direttorio" o, come lo definisce il Gup Trapani, "una sorta di confederazione associativa tra le tre principali cosche storiche del reggino (De Stefano – Condello - Libri), programmaticamente strutturata per funzionare sulla base di ferree regole criminali attraverso automatismi criminali collaudati".

Un'indagine che nascerà per catturare il superlatitante Pasquale Condello, il "Supremo" della 'ndrangheta. Un'indagine che il sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, erediterà dal collega Santi Cutroneo. Sarà proprio l'ex comandante del Ros, Valerio Giardina, che il 18 febbraio 2008 arresterà il "Supremo" a sviscerare, per diversi mesi, le risultanze investigative all'interno dell'aula bunker di Reggio Calabria. La tensione salirà però il 10 febbraio del 2012, allorquando il Colonnello Giardina parlerà di "una lobby politico-imprenditoriale-'ndranghetistica gestisce gli appalti e la vita sociale di Reggio Calabria". Una lobby di cui – preciserà sette giorni dopo Giardina – l'allora Governatore Giuseppe Scopelliti e il fratello Consolato (Tino, ndi) sarebbero parte integrante, anzi, fondamentale. La Cosa Pubblica in mano a pochi personaggi che avrebbero pensato solo ad accumulare potere e denaro. La "lobby" più volte nominata da Giardina, di cui avrebbero fatto parte i fratelli Scopelliti, ma anche altri soggetti: "Ecco il modello Reggio!" concluderà il Colonnello, attirandosi la rabbia dell'ex sindaco che convocherà anche una conferenza stampa per difendersi.

Sarà però il collaboratore di giustizia Nino Fiume a proiettare il processo nel cuore della "Reggio Bene", l'essenza di una città che, nei suoi ambienti raffinati e altolocati, ha, di fatto, sempre accettato e convissuto a braccetto con "la 'ndrangheta alla Peppe De Stefano", come la definirà un altro collaboratore di giustizia, Roberto Moio. Fiume, per anni fidanzato con l'unica figlia del boss don Paolino, vivrà per anni fianco a fianco con Peppe De Stefano, l'uomo che avrebbe ricevuto il grado di "Crimine" e, quindi, di coordinatore del direttorio di cui farebbero parte i clan più potenti della città. Le affermazioni di Fiume, dunque, sono fondamentali nell'impostazione accusatoria che il sostituto procuratore della Dda, Giuseppe Lombardo, ha portato avanti. Un patrimonio conoscitivo ampio, quello di Fiume, e vissuto in primissima persona. Già a partire dagli anni '80, infatti, Fiume ha frequentato, giorno e notte, la casa dei De Stefano ad Archi, diventando amico di tutti i figli di don Paolino, da Carmine a Peppe, arrivando fino a Dimitri, l'unico che, al momento, sembra essere rimasto fuori da ogni dinamica criminale. Un rapporto che diventerà ancora più stretto quando Fiume diventerà il fidanzato dell'unica figlia di Paolo De Stefano, Giorgia. Ma quella degli eredi di don Paolino non era la ndrangheta che Fiume conosceva e cui aveva giurato fedeltà. Non era la 'ndrangheta di Paolo De Stefano: "Lui era un padrino della 'ndrangheta, ma in un certo senso era anche un sindaco, gestiva la città. Aveva abbandonato le sue origini di trafficante di bionde (le sigarette) e si dedicava all'amministrazione della città. Ricordo che ebbe anche degli screzi con Ciccio Canale, che andava nelle botteghe a farsi dare la mortadella, il pane. Paolo De Stefano non voleva che succedessero queste cose". Il "Crimine" sarebbe andato dunque a Giuseppe De Stefano, anche perché l'altro grande boss cittadino, Pasquale Condello, non ne aveva bisogno, forte dell'investitura che avrebbe ricevuto, nei primi anni '80, proprio da Paolo De Stefano. Da qui, dunque, secondo Nino Fiume, la nascita della grande "cupola" reggina: "La superassociazione era composta Pasquale e Giovanni Tegano, Pasquale Condello, Giuseppe De Stefano e avevano potere su tutto e su tutti, su tutte le cose che potevano portare soldi e ricchezza". D'altra parte, come afferma con grande sicurezza il collaboratore "Pasquale Condello e Giuseppe De Stefano erano la stessa persona". Ma la cosa che avrebbe permesso ai De Stefano di diventare quelli che sono, sarebbe la capacità di relazionarsi con il mondo dei "colletti bianchi". Senza di essi, infatti, la 'ndrangheta sarebbe rimasta una banda di ladroni. E invece, imprenditori, politici e massoni avrebbero contribuito ad accrescere a dismisura il potere della famiglia di Archi: "I De Stefano – afferma Fiume – hanno sempre potuto contare su amicizie importanti nella massoneria deviata, tutto a un livello superiore. Sono cose che partono da lontano, ricordo quando le figlie della "Reggio Bene" facevano a gara per imparentarsi con Giuseppe De Stefano". Già, la "Reggio Bene", quella che, di fatto, si sarebbe consegnata tra le braccia dei De Stefano, che l'avrebbe plagiata, soggiogata. Da qui, dunque, gli "arcoti" avrebbero iniziato a frequentare i salotti buoni della città: "La Reggio Bene è lo schifo di Reggio – dice Fiume – Reggio ha vissuto sempre di massoneria e di logge deviate".

Un processo lungo, in cui accusa e difesa scandaglieranno le conoscenze dei vari collaboratori di giustizia che sfileranno al cospetto del Tribunale. Particolarmente lungo l'esame del controverso collaboratore Nino Lo Giudice, che negli anni avrebbe gestito la latitanza del "Supremo", Pasquale Condello. Al "Nano", il pm Lombardo mostrerà una serie di fotografie e di documenti, acquisiti dopo la cattura del latitante da parte del Ros. E il processo "Meta" andrà in rotta di collisione proprio con quello che vede alla sbarra il clan Lo Giudice: sarà la gestione dell'accusa a mettere in correlazione i due casi. Proprio sulle dinamiche riguardanti il clan Lo Giudice, deporrà anche lo stesso Colonnello Valerio Giardina, che per le sue dichiarazioni subirà la richiesta di trasmissione degli atti per falsa testimonianza.

Un processo lungo, che si protrarrà anche per alcuni "incidenti di percorso": a dibattimento quasi ultimato, infatti, verranno rinvenute su una nave traghetto i plichi contenenti le intercettazioni telefoniche e ambientali che compongono il vasto materiale accusatorio. Una "dimenticanza", quella che sosterranno i periti incaricati, che non pregiudicherà il procedimento (dato che i plichi verranno ritrovati integri) ma che costringerà il Tribunale ad assegnare nuovamente il compito delle trascrizioni.

Da ultimo, il pm Lombardo modificherà il capo d'imputazione, rendendo palese la figura degli "invisibili", soggetti appartenenti alla "zona grigia" che, in concorso con i capi storici dei clan, avrebbero il controllo su ogni singolo respiro della vita di Reggio Calabria. Saranno le motivazioni a chiarire se il Collegio sposerà o meno, nel merito, la tesi del pm. E sarà solo il futuro, eventualmente, a far conoscere alla città i nomi degli "Invisibili".