Processo "Epilogo": in aula i Carabinieri minacciati dai Serraino. E Cortese sbotta: "Dicono bugie sotto giuramento"

cortesemauriziodi Claudio Cordova - Un vero e proprio show. Di esilarante, però, non c'è proprio nulla. Le accuse che Maurizio Cortese (nella foto), imputato nel processo "Epilogo" come esponente di spicco del clan Serraino, rivolge ai Carabinieri della stazione di Cataforio sono infatti gravissime: "Hanno detto delle bugie sotto giuramento" ha tuonato in aula nel corso di alcune dichiarazioni spontanee rese al cospetto del Tribunale presieduto da Silvana Grasso.

Nel corso della lunga udienza, infatti, hanno sfilato in aula alcuni militari dell'Arma che, a vario titolo, hanno contribuito alle indagini che hanno portato alla maxioperazione del settembre 2010. Il primo a rispondere alle domande delle parti è stato il Maggiore Carmelo Graci, oggi in servizio a Venezia, ma per anni in forza al Comando Provinciale di Reggio Calabria. Graci ha raccontato come ogni attività nei confronti dei Serraino sia nata, nell'agosto 2009, dalla denuncia dell'imprenditore vibonese Vincenzo Restuccia, l'uomo che, nel corso della propria attività in Calabria, avrebbe subito oltre cento intimidazioni, tra danneggiamenti ed estorsioni. Non avrebbero fatto eccezione i Serraino, sul cui territorio (in via delle Camelie a Reggio Calabria, ndi) l'imprenditore avrebbe iniziato dei lavori edili. A testimoniare le "attenzioni" del clan sul cantiere, anche l'attività, quasi da telefilm americano, messa in atto dall'allora Capitano Graci, che, come ha raccontato in aula rispondendo alle domande del pm Giuseppe Lombardo e degli avvocati, si vestì da operaio, fingendo di essere il capo cantiere dell'opera. Con tuta e caschetto (e con l'unica copertura di un militare dell'Arma, a qualche metro di distanza), Graci avrebbe dunque "incassato" l'avvertimento di uno dei presunti affiliati, Nicola Pitasi, che, condotto successivamente in caserma, si sarebbe giustificato con nonchalance: "Stavo solo chiedendo la mazzetta...".

Ma le deposizioni più lunghe ed esemplificative del clima di tensione che i Serraino avrebbero instaurato nel territorio di San Sperato e delle aree limitrofe, sono quelle dei Carabinieri che, negli anni d'indagine, hanno svolto il proprio servizio presso la stazione di Cataforio, dove Maurizio Cortese, elemento principale dell'indagine, era andato a vivere in regime di semilibertà. L'appuntato Oronzo Bianco e il Maresciallo Davide D'Aquila (che comandava la stazione) sarebbero stati vittima di minacce esplicite o velate da parte di Fabio Giardiniere, genero del defunto boss don Mico Serraino e quindi cognato di Alessandro, "Lisciandro", Serraino e, appunto, Maurizio Cortese.

Due militari che, con il proprio ruolo sul territorio, avrebbe contribuito a ridisegnare gli assetti interni alla cosca Serraino che, come sostenuto dall'indagine "Epilogo", sarebbe riuscita a rigenerarsi, dopo anni di arresti e di morti, attraverso il "reclutamento" di giovani e agguerrite leve. Due memorie storiche dell'area collinare reggina, i Carabinieri Bianco e D'Aquila sono gli stessi che il Comando Provinciale interpella per riconoscere alcuni dei partecipanti al funerale dell'anziano patriarca don Mico Serraino, morto nel marzo 2010. Una cerimonia funebre in cui le telecamere dei Carabinieri immortaleranno anche il 40enne Seby Vecchio, poliziotto in aspettativa,  a quel tempo assessore all'istruzione del Comune di Reggio Calabria e oggi presidente del Consiglio Comunale.

Il primo dei due militari a deporre è stato l'appuntato Bianco che ha ricordato quando, avendo fermato Giardiniere nel corso di un posto di blocco, in cui sarebbe stata anche comminata una multa, il genero di don Mico Serraino, in quel periodo ancora vivente, lo avrebbe apostrofato con una frase pesantissima: "Spera che mio suocero viva altri cento anni, altrimenti le cose cambieranno specialmente per te, fino a quando mi mantiene la testa mi mantengo calmo, poi quando non mi terrà più la testa vedremo come andrà a finire". Una frase inequivocabile, quella rivolta al militare, che, attraverso i propri confidenti, di cui non ha voluto rivelare l'identità, sarebbe riuscito a venire a capo di alcuni danneggiamenti sul territorio di Cataforio e dintorni: "Maurizio Cortese mi temeva – ha detto in aula l'appuntato Bianco – perché sapeva che ero a conoscenza di molte cose".

Un'affermazione che, al termine dell'udienza, ha scatenato le ire di Cortese, non nuovo a sfuriate in aula: "Come fa un Carabiniere a esprimersi in quel modo? Se sapeva cose su di me le doveva scrivere. Ma del resto Bianco non si è mai capito se a Cataforio voleva fare il Carabiniere o il malandrino". Ma Cortese se la prenderà anche con il Maresciallo D'Aquila: "Dice di non aver fatto indagini sul mio conto, ma è falso". Lo stesso D'Aquila sarebbe il militare che, nel corso di un controllo domiciliare, sarebbe stato "rimproverato" da Cortese per quanto scritto in una relazione sul conto del suocero, Paolo Pitasi, detto "U Ciuncu". In quell'occasione Cortese avrebbe rammentato al Maresciallo D'Aquila, di sapere dove si trovava la sua casa a Gallico, insistendo molto su tale circostanza, come a lasciar presagire eventuali rappresaglie.

"Io sono sereno – ha sbottato in aula Cortese – vengono dette cose false, voglio denunciare il confidente, così vediamo chi è la mafia. Parlano dei Serraino, hanno costruito una cosca fatta di ragazzini". Uno sfogo ad alta, altissima, voce, quello di Cortese, degna chiusura di un'udienza infuocata in cui il pm Lombardo è dovuto anche ricorrere alle maniere forti, minacciando azioni al cospetto del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati nei confronti dell'avvocato Giacomo Iaria (legale proprio di Cortese) che, per diverse fasi dei propri controesami, ha insistito su alcune vicende, non riguardanti il procedimento e gravitanti attorno all'attentato alla Procura Generale del 3 gennaio, su cui, per diverso tempo, è aleggiata l'ombra dei Serraino.