A poche ore dalla sentenza di primo grado nel processo sul "Caso Fallara", Nico D'Ascola, difensore del principale imputato Giuseppe Scopelliti, chiarisce quali siano i due principali aspetti su cui si muove la strategia difensiva messa in atto. Il primo punto cardine si basa sul principio dell' "errore di diritto", che in buona sostanza va a confermare la buona fede di Scopelliti nelle sue azioni ai tempi in cui era sindaco e affiancato dal suo braccio destro Orsola Fallara, dirigente del Settore Finanze morta suicida nel 2010, all'indomani dello scoppio del "Caso Fallara".
"Il cittadino – esordisce D'Ascola – ha l'obbligo di osservare i precetti, ma lo Stato ha anche l'obbligo di introdurre precetti comprensibili. Il cittadino nello scegliere tra il vietato e il consentito deve fare affidamento sul sistema legislativo, se il sistema legislativo è un sistema ambiguo che non consente di capire bene cosa è vietato e cosa è consentito ovviamente il cittadino non può orientarsi perché non sa cosa deve fare".
E qui entra in ballo l'attuale presidente della Provincia Giuseppe Raffa, all'epoca vice sindaco e – quando Scopelliti venne eletto Governatore – sindaco della città fino all'elezione di Demi Arena.
"Il principio dell'errore di diritto – prosegue l'avvocato – ha una sua consistenza in questo processo, perché si dice del sindaco Raffa che lui venne indotto in errore, che si trovò in una situazione di errore anche lui, e lo dice il pm, per una parte iniziale del suo mandato all'interno della quale consentì alla Fallara di svolgere queste stesse attività, che poi preso dai dubbi nominò dei consulenti ed ebbe dei pareri. Uno di questi pareri era favorevole al mantenimento di questo incarico alla Fallara gli altri erano di segno sfavorevole e lui revocò il conferimento dell'incarico. Abbiamo quindi un espresso riferimento in questa vicenda processuale ad uno stato di buona fede, nel quale stato di buona fede si trovò Raffa".
Ma se Raffa era in buona fede, D'Ascola si chiede allora perché la stessa buona fede non sia stata attribuita anche a Scopelliti.
"Il problema – spiega – è di comprendere per quale motivo noi dovremmo ritenere che Scopelliti non si trovò in un analogo stato di buona fede visto che Raffa viene tenuto fuori da questa vicenda, e secondo noi giustamente.
La mia attività difensiva ha avuto ad oggetto la valutazione di tutto ciò che eventualmente potrebbe dimostrare la malafede di Scopelliti, prima partendo dai dati diciamo oggettivi della vicenda, cioè a dire la vicenda aveva dei tratti seppure nella sua oggettività rivelatori della esistenza di un divieto e dell'applicabilità di questo divieto alla vicenda che concerneva la Fallara. Ma qui non basta dire c'è un divieto: questo divieto era applicabile a questo particolare rapporto? Il discorso non si può risolvere nel dire se c'era un divieto, perché il rapporto concerneva il compimento di un'attività diversa rispetto a quella che la Fallara avrebbe dovuto compiere in ufficio ed era un lavoro che si svolgeva altrove, nemmeno all'interno dell'ufficio".
Non solo quindi, mancherebbero gli elementi per dimostrare la malafede di Scopelliti, ma secondo la ricostruzione proposta dalla difesa, nessuno all'interno del Comune – all'epoca dei fatti – era a conoscenza della non regolarità di quanto stava accadendo.
"Non c'era nemmeno una diffusa consapevolezza della illiceità di questa condotta – sottolinea D'Ascola – poiché analogamente sarebbe dovuto essere consapevole Raffa, invece noi diciamo che Raffa è scusabile, ma se noi diciamo che Raffa è scusabile è chiaro che la consapevolezza in Comune non c'era. Anche il pm dice che Raffa non sapeva niente, quindi noi ammettiamo non soltanto la scusabilità dell'errore di Raffa, ma anche la circostanza che non vi era una consapevolezza diffusa nell'Ente. Possiamo solo selezionare l'esistenza di elementi probatori dimostrativi che nessuno sapeva niente, ma Scopelliti lo sapeva, però questi elementi non ci sono, né il pubblico ministero ce li ha forniti".
Nelle dichiarazioni rese dallo stesso Scopelliti – come racconta l'avvocato – lui stesso chiese alla Fallara se fossero lecite determinate condotte, e lei rispose in modo affermativo. "Questo dimostrerebbe che Scopelliti allora sapeva, ma noi ci siamo permessi di dire no, Scopelliti non sapeva, ha chiesto un parere e il parere era affermativo, pertanto non c'erano motivi per non agire, quindi l'elemento probatorio che nasce ripeto soltanto dalle dichiarazioni di Scopelliti dimostra il contrario".
Da una parte, quindi, Scopelliti non era in malafede, come lo stesso Governatore ha ribadito più volte, lui stesso non sapeva cosa firmava. Ma c'è un secondo punto su cui si basa la difesa dei suoi avvocati: l'assenza di dolo intenzionale.
"Il delitto d'abuso d'ufficio – continua D'Ascola – per legge, è punito se si prova un dolo intenzionale. Non è sufficiente ogni forma di dolo per dimostrare la sussistenza dell'abuso di ufficio, ma ci vuole il dolo intenzionale, ovvero – spiega riferendosi al caso di Scopelliti – "che tu quell'atto del tuo ufficio non lo avresti mai compiuto se non fossi stato finalizzato nei tuoi comportamenti dall'obiettivo, dallo scopo di cagionare il vantaggio alla Fallara". Dobbiamo quindi avere degli elementi probatori, ma il pm non ne ha indicato alcuno, perché ha addirittura tradotto il dolo intenzionale in una semplice coscienza e volontà del fatto".
La sentenza di primo grado, secondo quanto chiarito dalla presidente del Collegio Olga Tarzia, non arriverà prima delle 20.