-di Alessia Candito - "Luciano tu sei convinto che i tuoi amici ti tireranno fuori, per questo ti sei trincerato nel silenzio e nell'omertà, ma non devi stare zitto, devi parlare. Hai intrapreso una brutta strada, che è senza uscita. Io come fratello ti ordino di parlare. Se devi farlo, se c'è qualcosa che non ho detto, accusa anche me ma io ti ordino di parlare senza guardare in faccia nessuno". Quello che Nino Lo Giudice, ex boss dell'omonima cosca , rivolge al fratello Luciano al termine della sua audizione in qualità di testimone nell'ambito del processo contro la sua stessa famiglia, non è un appello, né un invito. È un ordine perentorio. Che Luciano però continua ad ignorare. Al contrario. Dopo aver chiesto di rendere dichiarazioni spontanee dal carcere di Ascoli Piceno in cui è detenuto, Luciano Lo Giudice non ha alcuna esitazione nell'affermare "io non ho nulla su cui collaborare, io posso solo dire la verità e la verità è che non ho nulla a che fare con la ndrangheta. Non mi faccio usare da persone delle istituzioni in una guerra contro altri magistrati". Parole pesantissime, quelle del fratello del boss Lo Giudice, "Nino il Nano", cui quasi con rabbia Luciano dice "Cosa vuol dire collaborare? Mettersi nelle mani di Pignatone, Prestipino e del dottore Cortese per essere usato contro Cisterna, Mollace, Macrì, i servizi di intelligence o i carabinieri?". Mentre nell'aula cala un silenzio quasi tombale Luciano scandisce "Se qualcuno – Cortese, Pignatone, Prestipino – hanno intenzione di distruggere i magistrati che davvero hanno raso al suolo la maggior parte della ndrangheta di questa città, non conti su di me". Un attacco durissimo e che getta ombre pesanti su chi fino a poco tempo fa ha coordinato l'attività della Procura di Reggio Calabria, incluse le inchieste che hanno messo in ginocchio il clan Lo Giudice. E che hanno messo nei guai l'ormai ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia, Alberto Cisterna, oggi sotto procedimento disciplinare proprio per i suoi rapporti con Luciano Lo Giudice. Rapporti che quello che i magistrati considerano la mente imprenditoriale e affaristica del clan definisce "assolutamente leciti". "Io – afferma Luciano – al dottore Cisterna ho solo chiesto di salvare la vita di mio fratello Maurizio. Io non mi presto ad accusare persone che non hanno fatto niente, con le quali ho sempre avuto rapporti più che leciti". Persone come i giudici Cisterna, Mollace, Macrì, protagonisti di un'intera stagione della Procura di Reggio Calabria e contro i quali Nino Lo Giudice – fratello di chi oggi li difende a spada tratta - nel corso della sua collaborazione ha più di una volta puntato il dito. "Nino Lo Giudice dice cose che non sa, parla di cose che non sa. Non lo sa cosa mi hanno combinato al carcere di Rebibbia il giudice Pignatone, il giudice Prestipino e il dottore Cortese. A tempo debito, quando verrà il momento di parlare sarò io a raccontare cosa è successo". Ma per adesso – ha continuato a ribadire Luciano – "non mi posso fare usare da persone delle istituzioni". Come al contrario, ha lasciato chiaramente intendere, starebbe facendo Nino Lo Giudice, che - ripete più e più volte il fratello del boss – "non sa quello che dice, non sa di cosa parla". Ma quello che per inquirenti e investigatori ha deciso le sorti del clan Lo Giudice e che dopo l'arresto ha deciso di collaborare con i magistrati, ci tiene a mostrarsi credibile tanto da chiedere più e più volte alla presidente del Tribunale di poter essere presente in aula per "guardarla negli occhi mentre rispondo per dimostrare che è vero quello che dico". E se tutto quello che il pentito Lo Giudice ha dichiarato, rispondendo alle domande della pm Beatrice Ronchi, rispondesse a verità, sarebbero ombre pesantissime ad allungarsi sul passato recente delle istituzioni e dei vertici delle forze dell'ordine della città. Tutti personaggi con cui – stando alle dichiarazioni di Nino – il fratello sarebbe stato in rapporti più che stretti, più che amichevoli. Rapporti che avrebbero fatto gola anche al superboss Pasquale Condello, "Il Supremo", che pur di entrare a far parte del giro avrebbe cercato più volte nel corso degli anni di agganciare la cosca Lo Giudice. A Nino Lo Giudice – ha raccontato oggi il pentito in aula e in precedenza ha confermato anche Consolato Villani, primo cugino e affiliato al clan– Condello avrebbe chiesto e ottenuto aiuto e supporto negli anni della latitanza. Protetto dalla cosca sarebbe stato ospitato nell'abitazione del noto ottico Santo Cuzzola, nei pressi di Villa Aurora, nell'abitazione di Luciano Lo Giudice – che risultava però intestata alla madre di Amedeo Canale- , nell'abitazione del cognato di Giovanni Chilà, il braccio destro del boss, a Pellaro nella villetta di Antonio Laganà e a Paterriti, a casa di Giuseppe Gattuso. Tutti nascondigli che la ndrina all'epoca ha messo a disposizione del superboss, che è arrivato a tentare Nino Lo Giudice persino con l'offerta di farne il suo rappresentante nei summit di ndrangheta e il referente unico per le estorsioni in città. Una richiesta che Nino "Il Nano" – dopo un'attenta consultazione con lo stato maggiore della cosca – avrebbe rifiutato. Gli arresti e i processi avevano colpito duramente il clan nel corso del tempo e – ha più volte messo a verbale il collaboratore – si era deciso di adottare una strategia di basso profilo, più orientata alla colonizzazione criminale di tutti i settori commerciali della città. Una penetrazione silenziosa nei gangli economici si tutti i quartieri di Reggio Calabria, lontana dallo sguardo di giudici e forze dell'ordine, che l'offerta di Condello avrebbe inevitabilmente fatto saltare, riportando il clan – che dopo la seconda guerra di ndrangheta aveva anche volutamente rinunciato ad avere uno specifico quartiere su cui imporre il proprio dominio – in prima linea. Ma dopo aver rifiutato l'offerta del Superboss, Nino Lo Giudice avrebbe iniziato a temere ritorsioni contro di sé e contro la propria famiglia. Un'ipotesi suffragata da "cose strane" – ha detto oggi in aula il collaboratore - come le armi inutilizzabili fatte ritrovare nei pressi della villa di Luciano Lo Giudice a Pellaro, o il vespone con dentro una pistola silenziata e guanti, fatto rinvenire nei pressi della Stazione Centrale, proprio lì dove Luciano aveva ufficio e bar, o ancora la Matiz nera, con dentro pistole e kalashninkov lasciata sull'autostrada, nei pressi di San Leo, lungo il percorso quotidiano del fratello del boss. O ancora, come l'improvviso quanto curioso avvicinamento di un uomo dei Condello, Leandro Spanò, che di punto in bianco si sarebbe avvicinato a Luciano e lo avrebbe messo al corrente di inquietanti confidenze. " Dobbiamo stare attenti – avrebbe detto Spanò al fratello del boss, secondo quanto raccontato oggi in aula da Nino – Qui a Reggio prima o poi bisognerà fare pulizia". Tutti segnali inquietanti, che avrebbero spinto i due fratelli ad iniziare a lavorare per l'arresto di Condello, all'epoca ancora latitante. "Luciano è sempre amico del capitano Spataro Tracuzzi, di Antonino Spanò, dei giudici Francesco Mollace, Alberto Cisterna, e tanti altri funzionari di polizia e del Ros", ha affermato oggi Lo Giudice per spiegare quali fossero i contatti su cui la cosca contava per portare le forze dell'ordine sulle tracce del superboss. E sarebbero state proprio le imbeccate che Luciano avrebbe dato al capitano Spataro Tracuzzi - stando a quanto dichiarato da Lo Giudice - a portare le forze dell'ordine a fare una serie di blitz e perquisizioni mirate a stanare Condello. "Assalti" – nel gergo di Nino Il Nano – conclusi con un niente di fatto. Nonostante in uno stabile di via Lia i Ros riescano ad arrestare Andrea Vazzana, nipote di Condello, il superboss sfugge ancora. E sarebbe stato questo a spingere i fratelli Lo Giudice a dare fondo al proprio carniere di contatti. Dopo l'ennesima perquisizione andata a vuoto, ha riferito oggi in aula Lo Giudice, "io ho detto a Luciano, 'conviene che vai a Roma, ne parli con Spanò, ne parli con Mollace e vedi quello che dobbiamo fare'. Luciano quindi è andato a Roma, ha incontrato Cisterna vicino alla Dna, in via Giulia, e il giudice gli ha detto che, una volta tornato a Reggio Calabria, avrebbe dovuto contattare il maresciallo Maesano". Ed a lui l'anima imprenditoriale del clan Lo Giudice avrebbe dato l'indicazione di seguire Giovanni Barillà, il genero del Superboss, per trovare Condello. Indicazione che – a detta di Lo Giudice – avrebbe condotto il Ros, che già da tempo lavorava per l'arresto del latitante, sulla pista giusta. "Dopo circa venti giorni – ha raccontato ancora "Il Nano"- Maesano è tornato da Luciano, è andato fino al suo bar a cercarlo, e gli ha detto 'Grazie, qualsiasi cosa tu abbia bisogno, siamo a disposizione". Un incontro a cui avrebbe assistito anche il pentito, casualmente al bar al momento dell'arrivo del colonnello dell'Arma. E sul quale – su richiesta delle difese, cui si è associata anche la pm Beatrice Ronchi - proprio Maesano, nelle prossime udienze potrebbe essere chiamato a riferire.