di Claudio Cordova - Il "prima" e il "dopo" del metodo investigativo reggino, ma anche del mondo di intendere il ruolo di magistrato e di ufficiale di polizia giudiziaria. L'avvio della requisitoria del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi, nel procedimento contro la cosca Lo Giudice significa molte cose oltre alla valenza processuale dell'atto: significa, per esempio, mettere in chiaro la veridicità dei fatti, dopo anni caratterizzati da chiacchiere e – ancor più spesso – da bugie.
Parla per quasi dieci ore il pubblico ministero. E lo farà per altre tre udienze. Ricostruisce le dinamiche interne alla famiglia Lo Giudice, a cominciare da quel "prima", quegli anni '90 e 2000 che – nonostante i plurimi riferimenti investigativi emersi sul conto della famiglia di Santa Caterina – non porteranno ad alcun tipo di indagine: "Dal 1991 in poi – dice il pm Ronchi – i Lo Giudice verranno dimenticati e nel frattempo fioriranno le loro attività imprenditoriali".
Eppure i collaboratori di giustizia parlano dei Lo Giudice, eccome. Parla Paolo Iannò, ex braccio destro di Pasquale Condello, il "Supremo" della 'ndrangheta, ma parla anche Maurizio Lo Giudice, fratello del discusso collaboratore Antonino e di Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale del clan e imputato nel procedimento in discussione davanti al Collegio presieduto da Silvia Capone. Dichiarazioni che, nell'uno e nell'altro caso, sarebbero state acquisite dall'allora pubblico ministero Francesco Mollace, oggi indagato a Catanzaro per corruzione in atti giudiziari, proprio per non aver svolto le indagini del caso sul clan Lo Giudice: "Si preferirà avere fonti confidenziali, tra queste Luciano Lo Giudice, che maturerà la propria convinzione di godere di impunità da parte degli inquirenti" dice il pm Ronchi.
Paolo Iannò parlerà dei rapporti tra il clan Lo Giudice e l'area che faceva riferimento a Pasquale Condello, uno dei boss più importanti che la 'ndrangheta abbia mai avuto. Sul finire degli anni '90, invece, sarà Maurizio Lo Giudice a riferire sull'operatività e sulla pericolosità della cosca Lo Giudice, parlando, per esempio, dell'omicidio di Angela Costantino. Un caso che la Dda risolverà solo di recente: eccolo il "dopo" di cui parla il pm Ronchi. Le dichiarazioni dei collaboratori, infatti, sarebbero state consegnate al pm Mollace già molti anni fa, ma non troveranno mai sbocco: "Non verranno mai valorizzate, non verranno mai incrociate" dice il pm Ronchi. Interrogato negli scorsi mesi, Mollace si affretterà a rivendicare la propria azione, salvo poi rettificare con una lettera al Tribunale dopo gli accertamenti svolti dal pm Ronchi, che dice: "Negli anni recenti le indagini si sono volute fare e si sono fatte".
Il confronto tra il "prima" e il "dopo" introduce il tema su cui il pm antimafia spingerà maggiormente: i rapporti istituzionali di Luciano Lo Giudice. Da Franco Mollace ad Alberto Cisterna, passando per il Capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, il brigadiere del Ros, Ciccio Maisano, e il Colonnello dei Servizi Segreti, Michele Ferlito. Luciano Lo Giudice, infatti, sarebbe diventato una fonte confidenziale, prima dei Servizi Segreti e poi del Ros, rimanendo, di fatto, immune dalle indagini. E questo nonostante le informative sul conto del clan Lo Giudice fioccassero: il pm Ronchi cita quelle del Ros di Valerio Giardina al magistrato Mollace nell'ambito dell'indagine "Vertice".
"Eppure Giardina dice di non essersi mai occupato dei Lo Giudice" afferma con amarezza il pm Ronchi. Amarezza. E' un sentimento ricorrente nelle parole del magistrato, che sottolinea l'atteggiamento dei testimoni Alberto Cisterna e Francesco Mollace, magistrati, ma anche degli ufficiali di polizia giudiziaria, il poliziotto Renato Panvino, i Carabinieri Valerio Giardina e Gerardo Lardieri, lo 007 Michele Ferlito: "Ci hanno lasciato senza parole – dice il pm Ronchi – facendo emergere un contesto anomalo non totalmente chiarito".
Ecco che riappare il "prima". Un "prima" che il pm Ronchi sintetizza così: "C'erano rapporti fiduciari non controllati, forze dell'ordine che operavano in modo non adamantino, la 'ndrangheta era considerata un gruppo di barbari in lotta tra loro e non un'organizzazione unitaria, come emerge dal procedimento "Crimine", il contesto era quello in cui soggetti come Giovanni Zumbo si muovevano indisturbati".
Parole durissime, quelle del pm Ronchi, che rimandano alle affermazioni, giudicate contraddittorie, dei vari testimoni eccellenti. Contraddittorie come quelle che avrebbero fornito l'ex comandante del Ros, Valerio Giardina, lo 007 Michele Ferlito e il magistrato Alberto Cisterna. Sarebbe stato proprio quest'ultimo, nel 2004, il tramite tra Luciano Lo Giudice, giovane rampollo di una nota cosca mafiosa, e il Colonnello Ferlito: Lo Giudice avrebbe dovuto fornire alcune indicazioni per arrivare alla cattura di Pasquale Condello. E così i tre si sarebbero incontrati prima a Fiumicino e poi, alcuni giorni dopo, nel cantiere nautico di Antonino Spanò, considerato dagli inquirenti un prestanome di Luciano Lo Giudice. "Da considerare sono solo le relazioni di servizio del tempo e non le contraddittorie dichiarazioni fornite in aula dai protagonisti" afferma il pm Ronchi. Un 2004 intenso, quello di Luciano Lo Giudice: nel giro di poche settimane acquisterà delle armi, mantenendo comunque rapporti con le Istituzioni e fornendo soffiate ai Servizi Segreti. Soffiate che, comunque, non porteranno a nulla.
"Perché allora Luciano Lo Giudice penserà sempre di avere un credito con Alberto Cisterna?" si chiede il pm Ronchi. Una domanda che significa tanto, ma che, ancora, contiene diversi punti oscuri a detta del pm. Tanti i contatti tra Luciano e Cisterna, documentati dal pm Ronchi: un centinaio tra il 2005 e il 2007, senza contare quelli intercorsi tra lo stesso Luciano e l'autista di Cisterna, quasi sempre nei giorni in cui il magistrato in servizio a Roma sarebbe tornato a Reggio Calabria. Luciano Lo Giudice avrebbe invocato l'aiuto di Cisterna in almeno cinque occasioni: per un controllo su strada avvenuto nei pressi di Motta San Giovanni; per la scarcerazione del fratello Maurizio Lo Giudice; per le visite necessarie alla cura della malattia del figlio; per un controllo della Polizia Amministrativa all'interno del bar "Peccati di Gola"; ma, soprattutto, per intervenire dopo l'arresto, subito nell'ottobre 2009. Da quel momento, infatti, Luciano si sarebbe appigliato ai presunti referenti istituzionali, ma soprattutto a Cisterna, cui scriverà dal carcere. E sono tanti i riferimenti, sia all'ex numero due della DNA (trasferito a Tivoli in via cautelare proprio per i rapporti con Luciano) sia allo "Zio Ciccio", Francesco Mollace: "Preferisco impiccarmi anziché accusare i magistrati" dirà Luciano Lo Giudice. In un colloquio in carcere, invece, il suo ex legale, Giovanni Pellicanò, darà una chiave di lettura eloquente sull'arresto: "Si sono rotti gli equilibri precedenti".
Luciano Lo Giudice, dunque, avrebbe ottenuto l'impunità grazie alle proprie amicizie pesanti e grazie al proprio ruolo di confidente. Un ruolo che si sarebbe protratto ben oltre i contatti del 2004 con i Servizi Segreti. Il pm Ronchi, infatti, documenterà il ruolo del clan Lo Giudice anche nel periodo della ricerca del superlatitante Pasquale Condello. Sarà il Ros dei Carabinieri del Colonnello Giardina a far leva sulle soffiate fatte al brigadiere Ciccio Maisano, detto "Falcao". Giardina e il suo vice, Lardieri, negheranno l'apporto di fonti confidenziali, sia nel processo Lo Giudice, sia nel processo "Meta". Proprio sull'indagine "Meta", il pm Ronchi inserisce alcuni punti di verità su quelle che definisce "stupide polemiche" degli ultimi anni: "Si tratta di procedimenti autonomi che non sono in conflitto". Tuttavia, in contrasto con le affermazioni di Giardina e Lardieri, arriveranno le plurime dichiarazioni dei sottoufficiali, che parleranno di un'accelerazione delle indagini a pochi mesi dalla cattura (febbraio 2008) e dell'utilizzo di fonti confidenziali, tra cui anche Luciano Lo Giudice. Sulla scorta delle soffiate a "Falcao" Maisano, il Ros effettuerà anche un'imponente perquisizione in uno stabile, avendo quasi la sicurezza di rintracciare il "Supremo".
Anche in questo caso, però, tutto si concluderà con un buco nell'acqua.
Un meccanismo che, però, avrebbe permesso a Luciano Lo Giudice e alla sua famiglia di rifiorire (almeno sotto il profilo economico) dopo gli anni della seconda guerra di mafia. Questo perché, secondo il pm Ronchi, chi doveva indagare non lo ha fatto: "La cosca Lo Giudice poteva essere fatta a pezzi". Non lo farà Francesco Mollace da Casignana (Locride). Ci proverà, molti anni dopo, Beatrice Ronchi da Bologna.