Processo "Cosa Mia": assoluzioni e riduzioni in appello per la cosca Gallico di Palmi

reggiocalabria aulabunkerdi Claudio Cordova - Ci sono diverse assoluzioni – anche di grande peso – nel procedimento d'appello "Cosa Mia", celebrato contro la cosca Gallico di Palmi e deciso nel pomeriggio dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria, presieduta da Bruno Finocchiaro. L'assoluzione che fa più scalpore è quella di Umberto Bellocco, condannato in primo grado a 18 anni di reclusione e assolto per non aver commesso il fatto. Assolti con la stessa formula anche Vincenzo Sgrò (8 anni in primo grado), Giovanni Cedro (9 mesi), Lucia Gallico (8 anni e 6 mesi) ed Elena Sgrò (6 anni e 2 mesi). Pesante anche le assoluzioni di Maria Antonietta Gallico (8 anni e 4 mesi in primo grado) e Carmelo Sgrò (8 anni e 6 mesi). La Corte, inoltre, ha assolto perché il fatto non sussiste Francesco Campagna (9 mesi in primo grado). Riduzione di pene per Vincenzo Barone, Massimo Aricò, Pasquale Casadonte, Roberto Ficarra e Rosario Sgrò, che passano tutti dagli 8 anni del primo grado ai 6 anni dell'appello. Antonio Dinaro passa dagli 11 anni del primo grado ai 10 anni e 4 mesi dell'appello, mentre Italia Antonella Gallico da 9 a 8 anni. Riduzione anche per Giulia Iannino, da 8 anni e 2 mesi a 6 anni e 2 mesi di reclusione. Antonino Ficarra, che in primo grado aveva rimediato 8 anni di reclusione, viene condannato a 9 anni, frutto però della continuazione tra due condanne. Tre anni e sei mesi per Domenico Gallico (8 anni in primo grado). Le uniche conferme riguardano Rocco Carbone (6 anni), Alberto Cedro (9 mesi), Vincenzo Gioffrè (6 anni) e Gaetano Giuseppe Santaiti (3 anni)

Un successo soprattutto per l'avvocato Francesco Albanese del foro di Reggio Calabria, difensore di Maria Antonietta Gallico, Vincenzo Sgrò e Carmelo Sgrò (quest'ultimo insieme all'avvocato Gianni Russano del foro di Catanzaro): tutti assolti totalmente e immediatamente scarcerati. Il legale difendeva anche Rosario Sgrò, che ha avuto una riduzione di pena, così come Domenico Gallico la cui imputazione per associazione mafiosa è stata riqualificata a quella di procurata inosservanza della pena per la latitanza di Rocco Gallico.

Il sostituto procuratore generale presso la Corte d'Appello di Reggio Calabria, Adriana Fimiani, aveva chiesto la conferma della condanna, con cui il Gup Antonino Laganà aveva condannato a oltre 150 anni di carcere boss e affiliati alla potente cosca Gallico di Palmi, avvalorando, all'esito del giudizio abbreviato, l'impianto accusatorio portato avanti dai pubblici ministeri Roberto Di Palma e Giovanni Musarò. Il processo scaturisce da un'operazione che andò a colpire i vertici dei clan Gallico-Morgante-Sgrò-Sciglitano di Palmi, e i Bruzzise-Parrello del "locale" di Barritteri e Seminara.

La pena più alta fu comminata dal Gup nei confronti del vecchio patriarca Umberto Bellocco, condannato a diciotto anni di reclusione. Sarebbe stato proprio il vecchio boss Umberto Bellocco, capo dell'omonimo clan che, da sempre, divide con la cosca Pesce il controllo di Rosarno, a stabilire chi avesse diritto a ricevere la tangente del 3% sul capitolato d'appalto dei lavori della Salerno-Reggio Calabria. In appello, però, l'accusa per il presunto boss Bellocco è caduta totalmente.

Per l'uomo – al pari di Lucia Gallico, Maria Antonietta Gallico, Carmelo, Vincenzo ed Elena Sgrò – la Corte ha disposto la scarcerazione, se non detenuto per altra causa.

L'indagine, portata avanti con il coordinamento del procuratore aggiunto Michele Prestipino, svelò infatti un mondo fatto di tangenti per i lavori sulla A3, di omicidi di mafia, ma anche estorsioni e violenze nei confronti di chiunque si rapportasse con le cosche. Le 'ndrine, dunque, avrebbero esteso i propri tentacoli sui lavori della A3, un controllo capillare con una chiara divisione della A3 in zone di competenza, con riferimento ai territori "amministrati" dalle varie cosche. Un controllo che si manifestava, soprattutto, con il pagamento, da parte del Contraente Generale (il Consorzio Scilla, formato da Impregilo S.p.a. e Condotte S.p.a.) di una cosiddetta "tassa di sicurezza", sborsata per evitare problemi e versata ai rappresentanti della 'ndrangheta, i quali a loro volta provvedevano a ripartire le quote ai vari rappresentanti delle 'ndrine legittimate alla spartizione. La sentenza della Corte d'appello, tuttavia, ridimensiona la portata dell'impianto accusatorio della Dda, che invece era stato avvalorato dal Gup Laganà.