Non sono bastate le dichiarazioni velatamente minatorie, né la presenza in aula dei familiari, di cui – anche protetta dal paravento – continuava a sentire, subire la presenza. Giuseppina Pesce - figlia, sorella, nipote di boss - aveva promesso ai magistrati, con cui da tempo ormai sta collaborando, che avrebbe ripetuto in aula quelle accuse che per mesi ha verbalizzato di fronte ai pm della Dda di Reggio Calabria. E oggi, nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia, come un fiume in piena ha parlato per otto ore, spiegando ai magistrati cosa voglia dire nascere nella famiglia Pesce a Rosarno, quali siano gli obblighi e le convenzioni quasi medioevali cui una donna di ndrangheta è sottoposta, ma cosa significhi soprattutto convivere con la consapevolezza di aver condannato i propri figli al medesimo destino già scritto di sopraffazione e violenza. Per oltre otto ore la pentita ha ripercorso la propria vita, raccontando ai giudici del Tribunale di Palmi – in trasferta a Roma su proposta del pm Alessandra Cerreti per "imponenti motivi di sicurezza - le motivazioni che l'hanno spinta a collaborare con la giustizia. Una testimonianza viva, vera, a tratti quasi cruda, difficilissima per una trentaduenne diventata adulta e autonoma solo quando è riuscita a recidere il cordone ombelicale con la sua famiglia. Con il clan. Due termini che fino al momento in cui non ha deciso di collaborare con i magistrati, per Giuseppina erano assolutamente sovrapponibili ed equivalenti. Nel corso della sua lunga deposizione, la collaboratrice ha spiegato – spesso rompendo in pianto – le pressioni che l'hanno spinta nell'aprile scorso ad interrompere in un primo momento la collaborazione con i magistrati, il senso di smarrimento, la paura di aver fatto una scelta troppo grande da poter sostenere. Per lei, ma soprattutto per i figli, usati in quel periodo dalla famiglia come cavallo di Troia per minare le difese e la volontà della donna. Per questo all'epoca aveva deciso di cedere, per questo all'epoca era tornata a Rosarno dove su precisa indicazione dei familiari aveva scritto e reso pubblica – anche grazie ad alcuni mezzi di informazione compiacenti – una lettera in cui affermava di essere stata costretta ad accusare il clan. Ma dopo poco, proprio quei tre ragazzi che in un primo momento erano serviti a minarne le difese, sono stati per Giuseppina la molla per tornare a collaborare. Si era resa conto non sarebbe stata la sola a pagare il prezzo del tradimento e che i suoi figli, i figli dell'infame, avrebbero pagato con lei. E lei, Giuseppina, voleva dare a quei tre ragazzi un futuro diverso. Un futuro in cui non ci fosse spazio per gli innumerevoli episodi di violenza, sopraffazione e terrore su cui il clan ha basato il proprio dominio e su cui Giuseppina tornerà a riferire domani davanti ai giudici.