La cosca Lo Giudice nelle parole del pentito Villani. "Era Nino a guidare lo scooter per l'attentato in Procura"

reggiocalabria aulabunker - di Alessia Candito - Non sono bastate oltre sette ore di udienza al collaboratore di giustizia Consolato Villani, sentito oggi nell'ambito del processo nei confronti dei presunti affiliati alla cosca Lo Giudice, a delineare l'intera geografia del clan che "da trent'anni – dice il pentito – esiste a Reggio città". Trent'anni che hanno i nomi e i volti dei componenti della famiglia che il pentito ha individuato anche nel corso di un lungo riconoscimento fotografico e che fanno parte della storia della ndrangheta reggina. Una cosca importante in cui – secondo Villani – anche l'affiliazione diventa solo una formalità.  " Io sono stato affiliato nel '96, appena uscito dal carcere, ma io nelle ndrangheta ci sono nato per famiglia e mentalità, ndranghetista lo sono stato sempre". Interrogato dalla pm Beatrice Ronchi, Villani, intraneo alla cosca, primo cugino e uomo di fiducia di Nino Lo Giudice è in grado di rivelare nel dettaglio gli aspetti anche più intimi e le strategie più segrete del clan. Ma soprattutto è in grado di confermare le responsabilità della cosca e del suo capo riconosciuto, Nino Lo Giudice, negli attentati contro la Procura Generale del 3 gennaio 2010. Responsabilità dirette. Contrariamente a quanto sostengono i magistrati di Catanzaro, secondo i quali alla guida quella notte ci sarebbe stato Vincenzo Puntorieri, Nino Lo Giudice, per Villani, avrebbe partecipato in prima persona all'attentato. Vestito da donna – "una cosa che faceva spesso quando c'era da mettere bombe", ricorda Villani – Lo Giudice sarebbe stato quella notte alla guida dello scooter, mentre Antonio Cortese "l'armiere del clan" si sarebbe occupato di piazzare la bomba. "Quando dovevamo andare a fare gli attentati – ricorda il collaboratore - si travestiva da donna. Aveva questa fissazione, due parrucche che mi aveva lasciato le ho anche io a casa". A Villani – racconta il pentito al Tribunale - sarebbe bastato guardare il video per identificare immediatamente entrambi. Il modo di vestire – "la gestualità,le movenze, lo stesso metodo utilizzato per piazzare la bomba sarebbero stati per il collaboratore indizi sufficienti per identificare immediatamente, già dai video trasmessi in siti web e tv, Cortese e Lo Giudice. Ma a fugare ogni dubbio sarebbe stato lo stesso Nino Lo Giudice, che settimane dopo gli attentati avrebbe confermato le sue responsabilità nell'attentato. "Mi raccomandò- afferma Villani, che all'epoca delle bombe era già latitante – stai fuori, non ti fare prendere perché succederà qualcosa di eclatante. Poco dopo ci sono state le bombe alla Procura generale. Da lì ho capito che era stato commissionato dai Lo Giudice". Uno stravolgimento nella strategia del clan che, secondo il collaboratore, dopo la seconda guerra di mafia aveva preferito una strategia di basso profilo, rinunciando anche al locale di Santa Caterina, pur di non attirarsi addosso l'attenzione degli inquirenti. I Lo Giudice avevano preferito dedicarsi agli affari, applicando il metodo mafioso per il controllo di interi settori dell'economia della città. E sempre in nome della strategia del basso profilo, a detta di Villani, avrebbero declinato l'offerta fatta da Pasquale Condello a Nino Lo Giudice di diventare suo rappresentante per i locali del centro città. Un'offerta importante  - "sarebbe stata – dice Villani un lasciapassare per ogni attività lecita e illecita" - che Condello avrebbe reso concreta offrendo a Nino Lo Giudice i proventi di un'estorsione ben oltre la cifra pattuita e che i Lo Giudice avrebbero rimandato indietro. "I  Condello effettivamente mandavano le estorsioni ai Lo Giudice – ricorda ancora Villani – una quota importante, perché era una famiglia di peso. Poi una volta  hanno mandato una somma non ricordo, circa 80 mila euro, ma Nino insieme al fratello Luciano Lo Giudice, la somma gliel'hanno mandata indietro. Non l'hanno voluta – ha chiarito il collaboratore di giustizia – perché pensavano di non averne bisogno". Una decisione in realtà dettata secondo Villani sia dalla volontà di non attirare l'attenzione delle forze dell'ordine, sia dal fatto che Luciano Lo Giudice – considerato l'anima imprenditoriale della cosca, era "diventato confidente delle Forze dell'ordine ". Ma sarà proprio la scoperta che a nulla valgono tali asseriti rapporti con il procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna,  e con Il capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, all'epoca  in servizio al Centro Dia di Reggio Calabria, per evitare a Luciano Lo Giudice la galera, a scatenare la rabbia del fratello. "io faccio arrestare a tutti, rovino a tutti". Una rabbia scatenata anche dalla sensazione nettissima che la rete che il clan aveva costruito attorno a sé si stesse sfaldando. " Qualche mese dopo l'arresto di Luciano, racconta Villani, ho incontrato Nino che mi diceva di essere molto preoccupato perché nell'agenda di Luciano erano stati trovati due numeri di un giudice", ricorsa Villani. Preoccupazioni destinate ad aumentare perché dopo l'arresto del fratello, anche il capitano Stracuzzi – per la cosca il "Maresciallo" – sarebbe scomparso dalla circolazione. Ma Nino Lo Giudice – racconta Villani, aveva deciso di aspettare fino al pronunciamento del Tribunale della Libertà. Ma anche quel giudice avrebbe in seguito confermato la detenzione per Luciano. Un pronunciamento che  per Nino Lo Giudice sarebbe stato proprio il segnale per dare il via all'organizzazione della risposta.