“Dottore, io di ‘sto Crimine non ho mai sentito parlare”. La versione di De Stefano

destefanogiuseppedi Claudio Cordova - Tutti zitti, parla Peppe De Stefano. Al processo "Meta" è il giorno dell'imputato principale, l'uomo che, seguendo le orme del padre, don Paolino, si sarebbe collocato al vertice della 'ndrangheta reggina, governando quel "direttorio" composto dalle più potenti famiglie della città. Parla per diverse ore, De Stefano. Con educazione, in perfetto italiano, come i suoi studi al Liceo Classico impongono. Risponde alle domande del pubblico ministero Giuseppe Lombardo, che conduce l'accusa nel processo che sta cercando di ricostruire le dinamiche criminali cittadine: "Oggi spero di venire a capo insieme a lei del perché si è creata questa situazione giudiziaria" esordisce De Stefano, che nel procedimento risponde della tentata estorsione all'imprenditore Ugo Marino, titolare del negozio After Fashion, ma, soprattutto, di essere a capo della super-associazione dominante su Reggio Calabria.

E sono proprio questi i temi affrontati nel lungo interrogatorio da parte dell'accusa, che peraltro dovrà proseguire nel corso della prossima udienza. Per l'uno e per l'altro capo d'imputazione, De Stefano ha ribadito, più volte, la propria estraneità alle condotte contestate: "Non sono io il vertice della cosca, non ho mai avuto questa velleità, spero che oggi venga fuori la mia verità, che è la vera verità".

A pesare sulla testa di De Stefano sono le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, da Paolo Iannò a Nino Lo Giudice, passando per Consolato Villani, Roberto Moio e Carlo Mesiano. Tutti a vario titolo concordi nell'attribuire alla famiglia De Stefano e a Peppe De Stefano un ruolo egemone sulla città, tramite la carica di "Crimine", che sarebbe arrivata in carcere nei primi anni 2000. Ma è soprattutto il principale accusatore, il pentito Nino Fiume, a finire nel tritacarne di De Stefano: "Questa convinzione viene fuori con Fiume muore con Fiume – afferma rivolgendosi al pm Lombardo – tutti gli altri pentiti parlano di me, lo fanno solo su sua specifica richiesta". Le accuse più specifiche, infatti, arrivano proprio da Nino Fiume, che per anni avrebbe vissuto gomito a gomito con Peppe De Stefano, essendo anche stato il fidanzato della sorella. Una frequentazione che De Stefano prova a ridimensionare, affermando come i rapporti inizino tra il 1988 e il 1989, interrompendosi poi il 5 ottobre del 1994 (per un periodo di carcerazione), salvo poi riprendere per qualche mese nel 2001, prima della decisione di Fiume di iniziare a collaborare: "Fiume ha un odio viscerale nei miei confronti, perché io lo avevo messo alla porta, perché non sapeva comportarsi, faceva uso di stupefacenti. Lui dice che Mario Audino faceva uso di stupefacenti, ma io so che non è così".

E' dunque Fiume il grande accusatore di De Stefano. Gran parte dell'esame reso al pubblico ministero, De Stefano lo impiega per rintuzzare le varie circostanze narrate dal collaboratore. Nega gli incontri svolti tra il 1992 e il 1993 a Rosarno e Nicotera per dirimere – alla presenza di soggetti della mafia siciliana – le dinamiche relative alla strategia stragista in Italia. Nega i rapporti con la politica: "Io con le Amministrazioni Comunali di Reggio Calabria non ho mai avuto a che fare". Nega di aver incontrato l'altro celebre boss, Pasquale Condello, che avrebbe dato il placet per la sua leadership: "Non ho mai incontrato Condello in vita mia, per la prima volta l'ho visto quando lo hanno arrestato". Nega i dissidi in famiglia, soprattutto con lo zio Orazio De Stefano, reo di una politica troppo appiattita sulla cosca Tegano: "Non ci sono mai stati attriti, è una matassa falsa".

Dichiarazioni, quelle di Fiume, che rischiano di pesare molto sulla situazione processuale di De Stefano che, però, accanto alla rabbia, ostenta grande sicurezza: "Io ho appreso in carcere dalla Gazzetta del Sud della collaborazione di Fiume e ho provato solo stupore e tranquillità, mi viene il mal di mare quando leggo che ci sarebbe stata fibrillazione nella mia famiglia dopo la scelta di collaborare". Lancia messaggi, De Stefano, mezze frasi che, però, darebbero il senso del grande carisma del soggetto: "Fiume si è messo in contatto con me, già mentre era collaboratore, ma per adesso non intendo riferire altro". Sono parole dure, quelle che De Stefano riferisce al collaboratore principale del processo. Si va dal "viscido" al "buffone", per il pentito accomunato – in maniera dispregiativa – a un altro celebre collaboratore, Giacomo Lauro: "Io non ho mai calcolato Fiume – lui è come un ragno, attacca il filo della propria ragnatela e lo lavora come vuole". E se Fiume e la sua "sporcizia mentale" sono temi ricorrenti nell'esame di De Stefano, il "Crimine" reggino non risparmia neanche gli altri collaboratori, come Roberto Moio: "Non l'ho mai frequentato, non l'ho mai visto a casa mia, giravano voci brutte su di lui, si parlava di confidenze, di servizi, di questioni di infiltrati". Ancor più duro è sul conto di Nino Lo Giudice, il presunto boss che si è autoaccusato degli attentati del 2010: "Uno spacciatore di angurie marce" lo definisce.

Nell'ottica del pm Lombardo, dunque, Peppe De Stefano avrebbe preso le redini che un tempo furono del padre Paolo, riconosciuto in maniera unanime come uno dei personaggi più carismatici che la 'ndrangheta abbia mai avuto. Don Paolino verrà assassinato ad Archi, nel proprio regno, il 13 ottobre del 1985, in quello che è considerato (insieme all'autobomba di Villa San Giovanni contro Nino Imerti) il primo vero atto della seconda guerra di 'ndrangheta reggina che lascerà sull'asfalto centinaia di vittime: "Con la morte di mio padre si è spenta la luce" afferma De Stefano. L'imputato, però, tratteggia un ritratto del padre totalmente diverso da quello che, invece, anche alla luce di sentenze, è passato alla storia: "Io l'ho conosciuto solo e soltanto come papà" dice. Né fornisce indicazioni su quanto sia accaduto in città dal 1985 al 1991.

E la 'ndrangheta?

De Stefano non ne vuole sentire parlare, anzi, afferma con forza di essersene sempre tenuto fuori: "In 43 anni di vita nessuno si è mai permesso a venire a parlarmi di 'ndrangheta". Sono tanti i riferimenti sul conto dei De Stefano e di Peppe De Stefano. E arrivano dai collaboratori di giustizia, ma anche dalle intercettazioni di altri soggetti, tutti concordi nel definire il clan di Archi come il "perno" attorno a cui ruota tutto o la "fonte" di ogni decisione. Dalle dichiarazioni dei pentiti Moio e Mesiano, fino alle conversazioni tra il boss Mico Libri e l'imprenditore mafioso Matteo Alampi o, ancora, quelle tra Nino Pellicanò e Angelo Chirico. Ma De Stefano non ci sta: "La 'ndrangheta? A Reggio non esiste, io non ne sono a conoscenza, non ho mai sentito parlare di cariche di 'ndrangheta o di riunioni". In definitiva, De Stefano nega di essere da anni il nuovo capo carismatico della criminalità reggina, l'uomo che avrebbe riscritto le regole, che avrebbe svolto il ruolo di collettore di tutte le estorsioni cittadine (e il caso di Ugo Marino sarebbe emblematico in tal senso), nega, infine, di essere, grazie alla carica di "Crimine", il boss che condizionerebbe ogni singolo respiro in città: "Dottore, io di 'sto "Crimine" non ho mai sentito parlare...".