di Claudio Cordova - Giustizia per "Sally". Il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto da Silvia Capone, ha condannato sei degli otto giovani del "branco" che avrebbero abusato per circa due anni della 13enne di Melito Porto Salvo. Nel dettaglio il Tribunale ha inflitto a Davide Schimizzi, 9 anni 6 mesi e 8 giorni di carcere, per Giovanni Iamonte 8 anni 2 mesi e 8 giorni, per Antonio Verduci 7 anni, per Michele Nucera 6 anni e 2 mesi, per Lorenzo Tripodi 6 anni, e per Domenico Mario Pitasi 10 mesi.
Assolti invece Daniele Benedetto e Pasquale Principato, per i quali è stata ordinata l'immediata scarcerazione, se non detenuti per altra causa.
Dopo la lettura del dispositivo, consultato il pubblico ministero Francesco Ponzetta (che aveva dato parere contrario), il Tribunale ha disposto la scarcerazione di tutti gli imputati condannati: escono dalla prigione Nucera, Verduci e Tripodi, mentre i due imputati principali, Iamonte e Schimizzi, finiscono ai domiciliari.
Il Tribunale ha, inoltre, disposto, il pagamento dei danni nei confronti delle parti civile costituite: per la giovane è stato ordinato il pagamento di 150 mila euro.
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Al termine di un dibattimento lungo, complesso, aspro e celebrato per gran parte a porte chiuse, il Tribunale ha quindi avvalorato in gran parte l'impianto accusatorio del pubblico ministero Francesco Ponzetta: "Questo non è un processo alle abitudini sessuali della vittima e parte offesa" aveva detto nel corso della propria requisitoria. Non una frase banale, perché in diversi passaggi dell'istruttoria dibattimentale e anche da taluna delle difese, sarà tutt'altro che implicito il tentativo di delegittimare la giovane, vittima di violenza sessuale di gruppo da parte di giovani che, in alcuni casi, avevano più del doppio dei suoi anni.
Il tutto in un contesto sociale a dir poco inesistente, perché fiaccato dall'omertà e dalla paura nei confronti della 'ndrangheta. Tra le persone coinvolte nell'inchiesta della Procura reggina c'è anche Giovanni Iamonte, figlio del boss melitese Remingo. Sally (nome di fantasia, ndr) verrà quindi lasciata sola non solo negli anni dei presunti abusi, ma anche successivamente, venendo bollata come una ragazzina facile, quasi come una prostituta. Insomma, per tanti, troppi, "se l'è andata a cercare".
Su quella ragazzina, certamente problematica, il branco capeggiato da Iamonte e Schimizzi si sarebbe tolto ogni voglia.
Entrambi infatti, non si sarebbero fatti alcuno scrupolo nell'abusare per quasi due anni di una giovane adolescente che all'epoca dei fatti aveva solo tredici anni. Schimizzi era il suo fidanzatino, o meglio la minore credeva che tra di loro potesse nascere qualcosa di bello, ma invece Schimizzi le avrebbe aperto la porta degli inferi dandola in pasto agli altri. La giovane stava attraversando un momento molto difficile. I suoi genitori si stavano separando. Pensava di trovare in Schimizzi un punto di riferimento stabile e affettivo, ma poco dopo tempo il giovane diventerà uno dei sui presunti aguzzini che la porterà "a discendere negli inferi", così scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere.
Proprio quella "discesa negli inferi" è stata descritta dal pm Ponzetta. In aula sono stati ripercorsi i vari incontri svolti nel territorio di Melito Porto Salvo e dintorni, ma anche i primi tentativi di ribellione. Il drammatico incontro tra il padre della vittima e Iamonte. Timidi tentativi, perché la denuncia ai carabinieri arriverà solo quattro mesi dopo l'acquisizione da parte della famiglia degli abusi. Prima, si cercherà di risolvere internamente la questione, anche incontrando la stessa famiglia Iamonte. Tipiche dinamiche da terra di 'ndrangheta: "Tutti si erano comportati come si dovevano comportare" dirà in aula il pm Ponzetta.
Poi la scelta di raccontare.
Dopo anni di vessazioni, la giovane si sfoga. Senza alcuna volontà di calunniare, sostiene il pm Ponzetta. Fatti tristi, espressione di un degrado morale, in cui nessuno può sentirsi senza colpe. Perché per esempio i segnali, per la famiglia, c'erano da tempo. Da tempo la giovane, seppur in maniera complessa e implicita, lanciava messaggi, elementi di disagio, richieste d'aiuto, anche attraverso atti di autolesionismo: "Disseminava tracce come Pollicino" dirà ancora il pm Ponzetta.
Nel corso del lungo procedimento, rispondendo alle domande delle parti, Sally ha ripercorso le fasi – talune molto personali e dolorose – dei due anni in cui sarebbe stata stuprata dal un gruppo di amici del proprio fidanzatino dell'epoca, Davide Schimizzi, che la avrebbe poi elargita a un numero piuttosto variegato di amici. Vicende torbide, in molti casi imbarazzanti per Sally, oggi maggiorenne ma 13enne all'epoca dei fatti, che ha risposto dalle domande formulate dai giudici Adriana Trapani, Bruno Finocchiaro e Paolo Ramondino nel corso dell'incidente probatorio.
Il "ricatto" (da cui deriva il nome del procedimento) sarebbe consistito nel minacciare la giovane non solo di divulgare notizie e immagini compromettenti, ma anche di fare del male ai propri cari. Come accade al giovane Antonino Spanò, con cui – in un periodo di pausa dagli abusi – la ragazza proverà a intraprendere una relazione sentimentale. Spanò verrà pestato da alcuni membri del branco, proprio per essersi avvicinato alla ragazza: "Doveva imparare a stare al suo posto" spiegherà il pm Ponzetta. La presenza di Iamonte, rampollo del clan di 'ndrangheta che a Melito Porto Salvo controlla tutto, sarebbe stata da un certo momento in avanti oppressiva e ossessiva. La stessa giovane ha dichiarato di avere avuto paura del solo sguardo di Iamonte. In aula sarebbe peraltro emersa chiaramente la posizione subalterna della famiglia della vittima nei confronti del casato Iamonte. Da qui la difficoltà di sciogliere Sally dal giogo del branco.
Le violenze del branco, infatti, sarebbero state fisiche, ma, soprattutto, emotive. Alla giovane sarebbe stato impedito di avere una propria vita serena, oltre le mura dove si svolgevano gli abusi. Il tutto anche a causa di un clima di omertà generale a Melito Porto Salvo. Anche dopo l'emersione del fatto, poca sarà la solidarietà della popolazione.
Anche alla lettura del dispositivo, a parte la massiccia presenza di amici e parenti degli imputati, non c'era da registrare la presenza di nessuno tra istituzioni, associazioni e società civile.