di Mario Meliadò - Come sempre ci sono i militari davanti alla sanitaria Sant'Elia, che da anni non è più nel quartiere di Condera (a Reggio Calabria) dove Tiberio Bentivoglio e la moglie, Enza Falsone hanno subito tantissime declinazioni e assistito al declino dell'attività. Da tempo è ormai in via marina, guardata a vista dai militari. Anche stamattina gli accenti non sono positivi: preoccupazione e indignazione perché – come ripeterà più volte il testimone di giustizia, Tiberio Bentivoglio – a volte si ha la netta impressione che chi subisce sia più vittima dopo la denuncia. La rabbia, tradotta in questa amara affermazione, ha contraddistinto tutto l'incontro voluto dall'imprenditore con i cronisti. Articolato e appassionato il riepilogo che Tiberio ha fatto della sua vicenda umana e commerciale: il successo imprenditoriale, il dar fastidio alla 'ndrangheta, le intimidazioni, il tentato omicidio, le denunce specifiche e circostanziate, la costituzione di parte civile in tutti i processi scaturiti dalle sue denunce.
Nel corso del suo incontro con i cronisti – presenti tanti rappresentanti del mondo associativo, politico e istituzionale – Tiberio ha specificato che tutta una serie di danni subiti non hanno mai avuto risarcimenti. Soltanto nel 2003 è arrivata la prima convocazione in Questura, malgrado la prima denuncia fosse stata fatta nel 1992, ben undici anni dopo. E poi alcuni "esiti paradossali" di alcuni procedimenti giudiziari.
L'oggi Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho , è stato audito a Roma sul caso di Tiberio – come ha ricordato lui stesso – ma esiste, aveva fatto sapere, una difficoltà nel rendere Bentivoglio testimone di giustizia perché le cose che ha denunciato vanno troppo indietro nel tempo. Da qui la sua ulteriore rabbia: "Tutta colpa dei gravi ritardi che hanno contraddistinto l'intera vicenda. E dopo l'incendio del 2005 – ricorda Tiberio – abbiamo dovuto attendere tre anni per il primo acconto e proprio nel 2005, nella sua ricostruzione, è iniziata la nostra sofferenza economica, che non si è mai arrestata e anzi và man mano aggravandosi. Io però – ha proseguito – continuo a dire che se la giustizia arriva tardi, in sostanza non è giustizia. Io ho sempre denunciato, riferendo sempre circostanze molto precise, che riguardavano personaggi della 'ndrangheta, ma anche della Chiesa e della politica. Nonostante questo si è sempre stentato a portare queste cose davanti a un giudice". Accuse che hanno costituito l'ossatura del processo denominato "Sistema", un processo che – secondo Bentivoglio – ha avuto delle stranezze: da un lato non ha visto la sua qualificazione come parte lesa, ma semplicemente come testimone; in seconda battuta, dice, per avere il processo di primo grado ci sono voluti anni, per cui tutto quanto è andato in prescrizione e nessuno è stato condannato per quei fatti delittuosi: "Spero che non accada anche in appello".
"Ho chiesto ai sensi della legge 302 del '90 di essere riconosciuto come vittima di mafia – altra stranezza che Tiberio Ricorda – ma tutto tace. E chissà se qualche altro pentito vorrà un giorno raccontarla tutta sulle ingiustizie che ho dovuto subire...".
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Nel 2016 il gravissimo incendio, nei pressi dell'Università mediterranea, dove c'era il deposito che ospitava tutta la merce che doveva essere trasferita nel nuovo negozio. "Ma anche questo caso – dice – è stato archiviato". E il dispiacere per non aver ancora restituito ad amici e parenti le somme che avevano prestato per poter aprire il nuovo punto vendita in via marina. Costretti a licenziare i dipendenti, impossibilitati a pagare loro la liquidazione: una confessione che ha il sapore della disperazione e di sensi di colpa, legata all'effettivo drammatico calo del fatturato. Intanto – sottolinea – continuano ad arrivare lettere minatorie, persino al negozio, cinturato dai militari.
Vittima dopo aver denunciato. Questo Tiberio lo ribadisce, con tutta la rabbia che ha dentro, con la casa ipotecata dallo Stato, con la procedura di vendita temporaneamente sospesa, ma comunque attiva. "Sarà un mafioso a comprarla?", si chiede amareggiato. "Abbiamo scelto di rimanere in Calabria. E ci rimarremo. A dover andare via – urla con la voce rotta dal pianto – sono i mafiosi. Non dobbiamo temere di restare uniti"