di Claudio Cordova - Accuse e insulti. Contro i collaboratori di giustizia Antonino Lo Giudice (nella foto) e Consolato Villani, ma, soprattutto, contro le Istituzioni, i magistrati della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, l'ex Procuratore Giuseppe Pignatone, l'aggiunto (e in corsa per la successione) Michele Prestipino e il sostituto Beatrice Ronchi, che da anni indaga sul conto della cosca Lo Giudice. Le dichiarazioni spontanee rese dagli imputati Antonio Cortese e Luciano Lo Giudice arrivano dopo ore di attività dibattimentale serrata e spigolosa, con polemiche piccole e grandi tra il Collegio e gli avvocati difensori.
Il "clou" dell'udienza, però, arriva al termine del controesame del funzionario della Squadra Mobile, Francesco Giordano, che aveva riferito sulle attività della cosca Lo Giudice, riproponendo le risultanze investigative incentrate sugli affari e sulle armi. Il primo a prendere la parola, consegnando al Collegio anche un proprio manoscritto di due pagine, è Antonio Cortese, l'armiere della famiglia Lo Giudice, considerato dagli inquirenti l'uomo che avrebbe posizionato i vari ordigni contro i magistrati reggini nel corso del 2010: "Non ho mai fatto parte di alcun tipo di associazione – ha esordito l'imputato – e il collaboratore Villani mi accusa di cose di cui io non so nulla". Le invettive di Cortese, infatti, sono dedicate soprattutto alle figure dei due collaboratori della famiglia, Villani e Lo Giudice, che con le proprie dichiarazioni avrebbero aperto squarci di luce sulle attività del clan: "Villani è venuto insieme a Nino Lo Giudice uno o due volte a casa mia, perché avevano bisogno che io aprissi il negozio di mia moglie perché loro dovevano fare dei regali che, puntualmente, non pagavano". Insomma, Cortese nega l'appartenenza alla 'ndrangheta, così come, fatto ancor più importante, nega di aver avuto un ruolo nella "strategia della tensione" del 2010, di cui si è accusato l'ex boss Nino Lo Giudice: "Conosco Nino Lo Giudice come una persona che ha sempre lavorato e non capisco come faccia a prendersi la paternità su cose che non ha mai commesso. Posso solo dirvi che persone paurose come lui non ce ne sono". Insomma, è "il Nano" il bersaglio principale di Cortese: "E' un burattino manovrato, non capisco se è Lo Giudice che racconta alla dottoressa Ronchi o è la dottoressa Ronchi che racconta a Lo Giudice". Ma Cortese contesta anche la qualifica di armiere, assegnatagli al momento dell'arresto: "Tutte armi regolarmente detenute, dichiarate ancor prima di averle nelle mani. Lo Giudice parla di un viaggio in Austria, ma io in Austria non ci sono mai stato". E anche con riferimento al proprio arresto, avvenuto al confine tra Italia e Slovenia, l'uomo ha la propria versione dei fatti: "Due giorni dopo l'arresto di Nino Lo Giudice, la sua compagna mi ha chiamato per dirmi che Nino le aveva detto di rivolgersi per qualsiasi cosa a Renato Cortese (ex capo della Squadra Mobile, ndi), quindi io sapevo già il 9 ottobre 2010 (la notizia sarà ufficializzata il 14 ottobre) della collaborazione di Lo Giudice e avevo intenzione di ritornare a Reggio per spiegare tutto". Cortese, invece, non farà in tempo a rientrare e verrà bloccato dalla Polizia al confine: "Martedì era impegnato il dottore Lombardo, mercoledì era impegnato in Cassazione il mio avvocato, io sarei stato a Reggio giovedì".
E non poteva essere da meno Luciano Lo Giudice, fratello di Nino, che partendo dalla deposizione del funzionario Giordano, "ha illustrato le calunnie dei collaboratori", racconta la propria versione su una serie di circostanze fin qui inedite: "Non ho mai chiesto informazioni a Nino Lo Giudice per la cattura di Condello. Io non c'entro nulla con la cattura di Condello. Conosco il carabiniere Maisano (con cui sarà in contatto nelle ore successive alla cattura del boss, ndi) da dieci anni e l'ho conosciuto tramite Nino Spanò (imprenditore imputato nel processo, ndi), ma lo contattai solo per scherzare, perché mi diceva che dopo la cattura di Condello sarebbe andato in pensione". Ma se Luciano, considerato l'anima imprenditoriale del clan, nega di aver fatto mai parte di alcuna cosca, d'altro canto riserva parole durissime al fratello Nino, uno dei suoi più feroci accusatori: "Mio fratello ha fatto scomparire i soldi dalla mia cassaforte, il mio arresto per lui è stato l'anno più bello della vita perché si è potuto godere i miei soldi con la sua amante marocchina". Nino è uno dei più grandi accusatori di Luciano, soprattutto con particolare riferimento ai presunti rapporti che l'uomo avrebbe intrattenuto con il mondo delle Istituzioni, dal Capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, al magistrato Alberto Cisterna: "Spadaro lo contattati solo per difendermi dagli abusi che mi stava facendo la Polizia, così come denunciai gli abusi in una lettera che mandai nel novembre 2009 (un mese dopo l'arresto) al dottore Cisterna. Mandai anche mia moglie da Cisterna, ma non per intervenire per la mia scarcerazione, ma per segnalare gli abusi". Niente favori nè da Spadaro Tracuzzi, nè da Cisterna. Proprio a questo punto, però, con il trasferimento nel supercarcere di Tolmezzo, inizia la parte più dura del racconto di Luciano Lo Giudice: "Me ne hanno combinate di tutti i colori, ho anche quattro vertebre schiacciate e ancora ho problemi. Lì o ti vendi o ti suicidi, ma io sono ancora qua, vivo e vegeto".
E si inquadrerebbero proprio in questi mesi gli incontri – secondo ciò che racconta Luciano – con i magistrati della Dda di Reggio Calabria: "I magistrati Ronchi e Prestipino volevano sapere della missiva che avevo inviato al dottore Cisterna, volevano sapere solo della missiva e quindi mi sono avvalso della facoltà di non rispondere. Ricordo che Prestipino se ne andò molto nervoso". Secondo il racconto di Luciano, dunque, i magistrati di Reggio Calabria avrebbero tentato di convincerlo a collaborare con la giustizia, soprattutto dopo la decisione di pentirsi, da parte del fratello Nino: "Il 14 ottobre (data in cui viene ufficializzata la collaborazione del "Nano", ndi) trovo Renato Cortese ad attendermi a Rebibbia, che mi dice che mio fratello voleva vedermi. Poi, in un'altra stanza, mi ritrovo anche Pignatone e Prestipino, che provano a convincermi a collaborare, mi hanno anche letto il rito della collaborazione". Un racconto di getto, quello di Luciano, che, a suo dire, avrebbe trovato anche un'avvocatessa di Roma (e non i suoi legali) pronta ad assisterlo in quello che, a suo dire, doveva essere il primo interrogatorio della collaborazione: "Quando ho detto, come dico anche adesso, che non ho fatto nulla e quindi non ho nulla da raccontare, ricordo che Pignatone alzò la voce".
Ricordo genuino o falsità? Lo Giudice viene "stoppato" dal presidente del Collegio. Le sue dichiarazioni non attengono ai fatti del procedimento. Le grandi rivelazioni – vere o false che siano – dovranno attendere ancora.