di Claudio Cordova - "Dall'analisi dei fatti ascritti e della responsabilità del reo, che ha dimostrato una spiccata pericolosità sociale, emerge che le esigenze di prevenzione speciale, legate alla probabilità di commissione di ulteriori reati della stessa specie di quello per cui si procede, postulano come necessario un adeguato controllo sulla persona del Labate che solo la misura carceraria può assicurare". E' un soggetto pericoloso, Pietro Labate (nella foto). Pericoloso perché esponente di spicco del clan "Ti mangiu", che nel rione Gebbione di Reggio Calabria controlla tutto, pericoloso perché capace di terrorizzare anche senza l'utilizzo di metodi violenti.
Impedire alla testimone di rendere le proprie dichiarazioni in un procedimento penale. E' con l'accusa di intralcio alla giustizia, reato aggravato dalle modalità mafiose, che, pochi giorni prima del Natale 2015, è stato arrestato il boss del rione Gebbione, Pietro Labate. A distanza di mesi, il Tribunale della Libertà (Antonino Foti presidente, Maria Cecilia Vitolla e Angela Giunta a latere) di Reggio Calabria ha confermato il carcere nei confronti dell'uomo, ritenendo sussistente la gravità indiziaria a suo carico, in virtù delle condotte ricostruite dalla Dda di Reggio Calabria. Secondo i pm Stefano Musolino e Rosario Ferracane, l'obiettivo di Labate ra quello di impedire a una imprenditrice della città di Reggio Calabria di rendere la propria testimonianza nel procedimento che vede alla sbarra il fratello del boss Pietro Labate, Michele Labate, ma anche l'ex vicepresidente della Reggina Calcio, Gianni Remo, e poi Pasquale Remo e Maria Romeo. Tutti imputati davanti al Tribunale Collegiale di Reggio Calabria perché nell'esercizio delle attività di impresa dedite al commercio all'ingrosso ed al dettaglio di carni, pollame ed altri prodotti alimentari di derivazione animale minacciavano la clientela, affinchè non si rifornisse più presso l'impresa di Remo Umberto, indirizzandola verso quelle collegate alle imprese riferibili alla comune cosca di ndrangheta ed, inoltre, facevano valere la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, anche a mezzo di minaccia implicita - che si inseriva nel contesto sociale ed ambientale intimidito e dominato dalla comune consorteria - per gestire il predetto settore merceologico in regime concorrenziale agevolato, a mezzo delle imprese direttamente o indirettamente riconducibili ai partecipi della comune cosca di ndrangheta ovvero ad imprese gestite da soggetti collusi o contigui alla predetta organizzazione. Ma anche perché avrebbero costretto Umberto Remo a cedere, a Pasquale Remo ed alla moglie Giovanna Arcudi, un immobile e un terreno ad un prezzo nettamente inferiore a quello di mercato, procurandosi così il relativo ingiusto profitto, con altrui pari danno. Tutti fatti aggravati, ovviamente, dal metodo mafioso.
Il boss Pietro Labate avrebbe voluto quindi chiudere la bocca alla testimone che, con il proprio narrato, avrebbe potuto inguaiare i propri sodali. Fatto non consumato, poiché, all'esito di reiterati rinvii cagionati da certificazioni mediche prodotte dalla testimone (di cui Il Dispaccio, volutamente, omette il nome), in ordine all'impossibilità di raggiungere la sede dell'udienza, le parti si risolvevano ad acquisire, di comune accordo, il verbale di dichiarazioni rese in precedenza che contenevano solo una parte parziale dei fatti a conoscenza della donna.
Sarà la stessa imprenditrice a raccontare nel 2015 l'accaduto al pm Stefano Musolino:
Omissis: allora, io, intanto le devo dire che, in relazione a questo verbale, ho omesso di dire in quanto ero stata contattata dal signor Pietro Labate e quindi, un attimo, intimorita da...
P. M.- Dott. Stefano Musolino: era stata contattata direttamente?
Omissis: no. Praticamente, il signor Pietro Labate era andato a trovare mio padre al negozio, alla bottega di Via Furnari.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: si ricorda quando questo?
Omissis: più o meno verso dicembre, prima di Natale.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: dell'anno scorso?
Omissis: dell'anno scorso. Sì, dell'anno scorso.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: suo padre, quindi, è ancora...
Omissis: no, mio padre stava male e, infatti, aveva parlato con mia madre, dicendogli che mi stava cercando, che aveva bisogno di parlare con me per sistemare una situazione.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: così, generico?
Omissis: generico.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: e lei l'ha collegata...
Omissis: ovviamente l'ho collegata perché non avevo niente altro da...
P. M.- Dott. Stefano Musolino: spartire con lui.
Omissis: da spartire con loro. E, quindi, ovviamente, in quell'occasione io ho evitato di dire determinate....tutte le cose che...
P. M.- Dott. Stefano Musolino: cioè, nel senso, lei dice, il fatto di avere ricevuto questa visita da Michele Labate...
Omissis: mi ha intimorito e non...
P. M.- Dott. Stefano Musolino: perché, nel frattempo, lei riceveva le nostre citazioni?
Omissis: sì.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: nel procedimento 142/10?
Omissis: esattamente.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: okay. Quindi, ha collegato le due cose e ha capito che l'interesse di Pietro Labate...
Omissis: era quello.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: era quello del procedimento dove il fratello era imputato.
Omissis: sì.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: e, quindi, quando l'ho chiamata lei era intimidita da questo che era successo?
Omissis: eh.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: ma lei conosceva, aldilà di questa cosa...
Omissis: sì.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: lei conosceva già, sul piano criminale, la famiglia Labate o no?
Omissis: sì.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: sì. Soltanto perché, come io mi sento dire spesso dagli imprenditori, lo aveva letto sul giornale? O perché li conosce, criminalmente, perché ha sperimentato chi sono?
Omissis: purtroppo ho provato sulla mia pelle.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: ho capito.
Omissis: ho provato sulla mia pelle.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: quindi, non è una di quelle che lo ha letto solo sui giornali!
Omissis: no.
P. M.- Dott. Stefano Musolino: okay.
Omissis: sfortunatamente non l'ho letto sui giornali.
Il dato riferito dalla donna, peraltro, viene riscontrato da quanto la Guardia di Finanza apprenderà in un interrogatorio della madre della stessa, che riconoscerà in foto il boss Labate già con la prima domanda degli investigatori:
Domanda nr. 2: Ha mai incontrato il suddetto Labate Pietro cl.'51?
Risposta: "Si l'ho incontrato, se non ricordo male, nello scorso dicembre. In quell'occasione, Labate Pietro venne a trovarmi presso il mio negozio di alimentari sito in via Nicola Furnari nr. 26/28. Quando è entrato nel negozio mi ha chiesto se l'avessi riconosciuto. Dopo essere rimasta per un attimo titubante, gli ho comunicato, spaventata, di averlo riconosciuto. Quindi ha affermato che voleva incontrare mia figlia perché le doveva parlare e mi ha chiesto se fosse venuta a Reggio Calabria per testimoniare nell'ambito di un processo. A questo punto gli ho risposto che mia figlia stava male e che la stessa stava effettuando delle visite mediche nel nord Italia propedeutiche ad un eventuale ricovero. Sono stata molto vaga perché avevo molta paura e non vedevo l'ora che Labate Pietro andasse via. Di tale visita, ho informato mia figlia dopo tanto tempo e di persona perché avevo timore di comunicarglielo per telefono".
Domanda nr. 3: Per quanto di sua conoscenza sua figlia Omissis ha mai intrattenuto rapporti di lavoro o di altra tipologia con il Sig. Labate Pietro?
Risposta: "Ho visto qualche volta Labate Pietro o i suoi fratelli entrare nel supermercato di proprietà di mia figlia sito a OMISSIS ma non sono in grado di riferire il motivo della loro presenza all'interno dei locali dell'attività commerciale".--------------------------------------------
Domanda nr. 4: Ricorda il nome dei fratelli di Labate Pietro che ha visto entrare presso il supermercato di viale Aldo Moro di proprietà di sua figlia?
Risposta: "I fratelli li conosco in maniera superficiale e ricordo che uno si chiamava Franco. Era il più piccolo della famiglia e gli stessi familiari lo indicavano come quello "viziato". Invece, l'altro si chiama Michele.
Per gli inquirenti "le stesse modalità di presentazione ed introduzione del tema della conversazione, adottate da Pietro Labate, nel dialogo descritto dalla OMISSIS, costituiscono un caso di scuola delle tecniche di allusione, tipiche di soggetti preceduti da una storia e fama criminale che "li precede"; sicchè, è sufficiente l'evocazione del proprio nome per incutere timore ed assoggettare l'interlocutore. D'altronde, non vi era altra necessità logica di introdursi alla OMISSIS non già presentandosi direttamente con il proprio nome, ma chiedendo alla donna se avesse inteso chi fosse, lasciando chiaramente intendere alla stessa che la reale domanda fosse: con chi avesse a che fare".
Un'idea pienamente condivisa anche dal Tribunale della Libertà di Reggio Calabria, che ha rigettato l'istanza di Labate, che chiedeva di essere scarcerato. I giudici del Tdl parlano di "atteggiamento evidentemente allusorio alla fama criminale da cui era preceduto". Come accade sempre più spesso per la 'ndrangheta della città di Reggio Calabria, non è più necessaria la minaccia violenta, muscolare, per suscitare terrore nelle vittime: "Tale elemento – scrivono i giudici del Tdl – riveste particolare rilievo simbolico allorché si pensi come in alcuni contesti territoriali sia sufficiente l'evocazione del nome o del casato criminale per incutere timore e assoggettare l'interlocutore; sotto tale profilo, si rileva come non vi fosse altra necessità logica di presentarsi alla [Omissis] non già con il proprio nome, ma chiedendo alla donna se avesse compreso chi fosse e quindi lasciando intendere anche con chi avesse a che fare". Ecco la nuova 'ndrangheta che non ha più bisogno di armi e danneggiamenti per soggiogare il territorio. E il territorio di competenza – il rione Gebbione – i Labate lo controllerebbero in maniera silente, ma allo stesso tempo opprimente. Scrivono i giudici: "La minaccia, invero, si può concretizzare in tutte le forme e i modi psicologicamente idonei a coartare l'altrui volontà: non occorre una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente qualsiasi comportamento o atteggiamento, indirizzato verso il soggetto passivo o terzi, il quale, avuto riguardo alle condizioni ambientali in cui il fatto si svolge, risulti idoneo a incutere timore o suscitare la preoccupazione di subire un ingiusto danno, tanto da indurre la vittima a fare, tollerare, ovvero omettere alcunché: la minaccia, pertanto, potrà essere orale o scritta, esplicita o implicita, reale o simbolica".
La visita, quindi, avvenuta proprio in contemporanea con i tentativi dell'Autorità Giudiziaria di citare in aula come teste l'imprenditrice, portano i giudici a credere fermamente che la visita di Labate avesse un unico, chiaro, intento: quello di impedire una testimonianza in aula che avrebbe potuto pesare sul destino processuale dei suoi parenti e sodali. E le due donne, anche davanti ai pm, mostreranno grande paura, tanto da essere definite dal Tdl "seriamente preoccupate di subire reazioni di tipo ritorsivo da parte del Labate, ben consapevoli della caratura criminale dell'odierno ricorrente (gravato da numerosi precedenti, tra cui condanne per condotte associative, reati di estorsione, episodi di lunga latitanza e periodi affatto trascurabili di detenzione".
Pietro Labate, dunque, si sarebbe mosso in nome e per conto della propria famiglia, da anni al centro di inchieste giudiziarie. La condotta dell'uomo si sarebbe prestata a "inquinare le dichiarazioni del teste di un procedimento che non riguarda solo determinati imputati, ma nel corso del quale venivano scandagliate le dinamiche della cosca e la sua infiltrazione nel tessuto economico-impreditoriale. In altre parole, il Labate non intendeva favorire solo il fratello, ma evidentemente l'intera cosca, dalla acquisizione di dichiarazioni pregiudizievoli in ordine agli interessi economici coltivati, vitali per ogni contesto associativo".
Per approfondire:
Le condotte contestate al boss Pietro Labate: leggi qui