Reggina: questa squadra non è un albergo!

oldtraffordstoredi Paolo Ficara - Un viaggio aiuta ad aprire la mente. Di recente ho avuto il piacere di visitare alcune città dell'Inghilterra, nazione nota per la musica e per il calcio. Più prati verdi che pasticcerie. Misure d'ordine severe, anche se talvolta il tafferuglio ci scappa. Sono rimasto sorpreso nell'apprendere che quando si disputa Blackburn-Burnley (per il momento le due compagini militano in categorie diverse), il cittadino di Burnley che vive a Blackburn per motivi di lavoro e vuole assistere a questa sfida molto sentita, è costretto a tornare nel proprio luogo d'origine e prendere il pullman assieme ai suoi concittadini.

Entrando allo stadio Old Trafford di Manchester, ed in particolare nello store ufficiale (molto affollato) dello United all'interno dell'impianto, ho intuito come facciano ad avere ogni estate circa 200 milioni da investire sul calciomercato. Vendono un po' di tutto, dalle magliette ai cappellini, dai poster ai portachiavi. Non dispongono però delle divise appartenute ai campioni della storia recente, per motivi legati ai diritti d'immagine. Infatti, tanto per fare un esempio, la maglia (autografata) di Eric Cantona è ben esposta al National Football Museum sempre a Manchester, e costa il triplo rispetto a quella di Rooney.

Ho mantenuto fedeltà alla mia squadra, evitando di arricchire i Red Devils (non sia mai che un giorno li affrontassimo in Champions League) con le 18 sterline che chiedono per la visita guidata sugli spalti dello stadio vuoto, accontentandomi di un giretto tra le mura esterne impregnate di storia. Fin qui, una sintesi del livello di merchandising del club più glorioso del Regno Unito. Il discorso cambia, tornando a Blackburn.

ewoodparkEntrando nei due negozi ufficiali dei Blackburn Rovers, l'atmosfera è diversa. Quello situato in centro città, è deserto. Ad Ewood Park, nel giorno che precede l'importante sfida col Liverpool valida per la FA Cup, un paio di tifosi ci sono. Entrambi i punti vendita, messi insieme, non fanno neanche la metà dello United store. Maglie senza nomi né numeri (i Rovers militano nell'equivalente della nostra Serie B), mentre le commesse non conoscono i motivi dell'indisponibilità della storica divisa di Alan Shearer, loro trascinatore negli anni '90. Lo staff si dimostra però molto gentile nell'aprirmi le porte dello stadio, facendomi passare dalla sala trofei. Il Blackburn non può vantare lo stesso numero di tifosi della Reggina, sparsi nel mondo, però è stato per tre volte campione d'Inghilterra e si è aggiudicato sei FA Cup, trofeo che per tradizione ed importanza non ha nulla a che vedere con la Coppa Italia. La categoria attuale, evidentemente, incide.

Ora, per Reggio Calabria sarebbe motivo di vanto diventare la quarta città d'Italia a progettare e costruire uno stadio di proprietà del principale club calcistico. Tre, appunto, gli esempi citati dal presidente amaranto Lillo Foti, per giustificare la propria volontà in tal senso: Torino, Roma ed Udine. Tre. In mezzo ad una Serie A composta da 20 squadre, espressione di 15 città. Senza contare le piazze importanti ed ambiziose della cadetteria. In quasi tutte le regioni ed in categorie superiori alla Lega Pro, c'è almeno un presidente che brama un impianto di proprietà. E non lo ottiene.

Il presidente del Milan ha governato il Paese a più riprese, negli ultimi 20 anni, ma non è riuscito a costruirsi uno stadio nella propria città e per la propria squadra. Fin qua, non ce l'hanno fatta neanche i cugini interisti. Aurelio De Laurentiis reclama anch'egli un progetto all'inglese, per il suo Napoli ma anche per il resto delle piazze. A Cagliari, Massimo Cellino è stato praticamente costretto a cedere la società dopo le diatribe che lo hanno portato addirittura in galera, per la questione stadio. Per realizzare una struttura all'inglese, in Italia, bisogna confrontarsi con le leggi italiane, con la condizione socio-economica del territorio, nonché con le istituzioni locali.

falcomatagiuseppe ildispaccio2In merito al "nuovo sogno amaranto", il sindaco Giuseppe Falcomatà ha espresso delle posizioni forti che condivido in toto. Da tifoso, mi sento tutelato e mi dichiaro "conquistato" dalle sue affermazioni; da giornalista, aggiungo che ogni amministratore impregnato di moralità, senso civico, competenza e passione per lo sport avrebbe parlato in egual maniera. Purtroppo, pur seguendo la Reggina da 15 anni e mezzo come giornalista (o praticante), non sono mai riuscito ad interpretare bene il senso dei discorsi del presidente Lillo Foti, e me ne dolgo. Probabilmente ho frainteso anche stavolta, ma mi sembra che nella sua risposta abbia battuto il tasto soprattutto sull'unico argomento meritevole della sua attenzione: il denaro.

Per me è stato un paradosso ascoltare il primo cittadino che parla di Reggina in senso calcistico, e poi leggere una risposta in cui il principale artefice di storici (e speriamo non irripetibili) successi sportivi, dà l'impressione di utilizzare la Reggina come mezzo per far scaturire investimenti di carattere commerciale, opere di media e grande edilizia e quant'altro. Ma come, non eravamo retrocessi dalla B alla Lega Pro anche per colpa della povertà del nostro contesto? D'improvviso, il terreno diventa fertile mentre siamo sportivamente al confine tra professionismo e dilettantismo?

La Reggina è, era e sarà sempre una squadra di calcio. Non è un albergo, né un parcheggio, né un villaggio!

Limitato per come sono, non comprendo per quale motivo gli australiani (ancora innominati in comunicati e lettere di Foti) dovrebbero dare sfogo alla propria vena edilizia nella zona in cui sorge il 'Granillo'. Ma la curiosità di entrare in uno stadio di proprietà della Reggina, ce l'avrei. Non vedo l'ora, magari nel bel mezzo di un derby col Roccella, di assistere in tribuna alle riunioni di famiglia, utili per decidere un modulo o una sostituzione. Un po' com'è avvenuto nel primo tempo di Reggina-Savoia.

Sono queste le cose che stanno facendo scomparire la Reggina dal calcio professionistico, non di certo l'attuale impianto di gioco. Difficilmente si assiste a certe scene a Manchester, a Blackburn, ma nemmeno in gran parte degli stadi d'Italia, o della Cina, o dell'Uzbekistan. Chissà in Australia.

Non so se per il presidente Foti rappresentiamo tutti un unico grande ostacolo: l'amministrazione comunale, la tifoseria, qualche giornalista. Casomai, ritengo sia l'esatto contrario. E sono talmente presuntuoso da non voler lanciare neanche un sondaggio, per capire se tra i supporters amaranto esista o meno la volontà di ripartire da qualsiasi categoria, pur di avere una società diversa. Mi bastano i cori ascoltati durante Reggina-Savoia. Cori che testimoniano l'incubo, altro che sogno, attualmente vissuto.

fotipresidenteSe Lillo Foti vuole a tutti i costi lo stadio all'inglese, forse gli conviene recarsi direttamente nel Regno Unito e chiedere ai suoi potenziali soci australiani di fargli da interprete. Gli augureremmo di avere miglior sorte rispetto a Massimo Cellino, "emigrato" da Cagliari per mettere le mani sul Leeds United, cui la "pacchia" sembra essere durata poco. A Reggio Calabria ci accontentiamo di una squadra di calcio capace di arrivare a quattro passaggi di fila, dato che i fasti della Serie A sono al momento lontani e le cattedrali nel deserto non avrebbero molto senso.

Un paragone col Parma, per questa Reggina Calcio 1986, può rappresentare solo un complimento. I ducali sono ormai falliti ma stanno in massima serie, fino a pochi mesi fa annoveravano gente del calibro di Cassano in organico, e (molto) male che gli vada ripartiranno dalla Lega Pro. Gli amaranto sono anch'essi collassati da cause e debiti, ma non abbiamo visto alcun fuoriclasse in riva allo Stretto negli ultimi anni e siamo giustamente ultimi in Lega Pro, per quella che è la cifra tecnica espressa.

Nello store del Manchester United, ci sono entrato fiero con indosso la maglia amaranto numero 10 di Nakamura. Di queste e di tante altre cose, renderò sempre grazie al presidente della Serie A. Ma adesso si svegli dal "sogno", e cominci a prendere atto della realtà.