Il mafioso che è in me

ilmafiosocheeinmedi Isidoro Malvarosa - "Al prossimo che dice che i calabresi sono tutti mafiosi quantevveroddio gli brucio la macchina".

Parte con un paradosso questa riflessione, un nonsense che ne rivela il substrato contradditorio e ambiguo.

Che i calabresi non siano esattamente tutti mafiosi è conquista tutto sommato recente. Un'ammissione, specie ad alcune latitudini, fatta a mezza bocca. C'è poco da festeggiare, hai voglia ad argomentare.

Le versioni semplificate della realtà, i binomi naturali, i cliché, sono difficili e faticosi da estirpare. Ci vuole tempo, applicazione, voglia di imparare e fantasia di studiare. Ci vuole una buona cultura di base. Mettersi a evidenziare le storie di calabresi "belli e bravi" potrebbe poi rivelarsi un clamoroso autogol.

Una soluzione si potrebbe trovare a livello linguistico: il termine calabrese potrebbe abbandonare la sua funzione qualificativa e rientrare nel naturale ruolo di identificazione geografica.

Tuttavia ogni stereotipo parte da una base di verità. Nessuno si sognerebbe di dare dello 'ndranghetista a un valdostano. È risaputo, la Valle D'Aosta è montagne, pascoli, ghiacciai perenni, baite e caminetti sempre accesi. In un mondo fatto di checklist e parole chiave, i preconcetti indubbiamente aiutano a vivere meglio.

All'estero lo sanno bene. Calabria? 'Ndrangheta, droga e 'nduja. Un merchandising di dubbio gusto che continua a lucrare sui luoghi comuni IGT sfornando magliette, apribottiglie e calamite da frigo.

U mafiusu, a mafiusa, l'omu d'onori, a lupara. E giù risate e sorrisi complici: non è vero che c'è la mafia, cioè sì c'è, ma io non ne faccio parte. La mafia c'è ma non si vede, mica ti rapinano per strada. Smentiamo e confermiamo, ammicchiamo. Azzardiamo analisi storiche e "giustificazioni" socio-economiche.

La 'ndrangheta: croce e delizia della nostra regione, simbolo internazionale, brand planetario.

Non sono mafioso ma forse, all'occorrenza, potrei diventarlo. È meglio che mi rispetti, che mi tieni buono, che non mi fai nessuno sgarro. I gradi di separazione che ci dividono da un potenziale mafioso sono meno dei consueti sei. Volendo qualcuno si conosce.

Sai: la mafia esiste e non esiste, i mafiosi non sono quelli con la coppola, sono professionisti integerrimi, girano puliti e ben mimetizzati.

Gonfiamo impercettibilmente il petto quando ci parlano di 'ndrangheta fuori dalla Calabria. Diventiamo all'istante lirici. Assumiamo la faccia problematica chi ogni giorno ci convive, di chi ci è cresciuto insieme, di chi poco ci può fare, di quelli con l'infanzia difficile. Buttiamo là qualche esempio di anti-mafia militante. È un misto di rassegnazione e fatalismo.

Quello che ne viene fuori è, spesso, una sorta di connivenza eventuale: ogni calabrese, in potenza, può essere mafioso. Lo sappiamo bene, soprattutto sappiamo che gli altri lo sanno.

Non smentiamo mai con forza di essere mafiosi quando le esigenze lo richiedono. Quando "ci serve una mano" per uscire da una discussione, durante una lite, dopo un sinistro. L'aureola della calabresità ci segue ovunque e noi la sfruttiamo all'occorrenza, più o meno inconsapevolmente. Conosciamo bene la reazione dell'interlocutore nello scoprire le nostre origini.

Non va sempre così, si tratta di una voluta generalizzazione. Ma è come se ci fosse una sorta di zona grigia nella nostra coscienza, qualcosa che non ci fa mai prendere completamente le distanze dall'atteggiamento mafioso. Questione di abitudine, di modi di dire, di vicinanza fisica e psicologica. Questione antropologica e sociale. Espressioni, portamenti e gesti che abbiamo conosciuto e appreso in età evolutiva. Fin da piccoli, nell'ora di educazione fisica o nei bagni della scuola media.

Presto o tardi, anche tra amici per scherzo, la scintilla ci scatta: ti squartu, ti 'ncrapettu, ti sciogghiu 'nta ll'acidu, ti sparu 'nta serranda. Il demone che coviamo dentro viene fuori.

I mafiosi non siamo noi – noi che abbiamo studiato, che veniamo da famiglie oneste, che non abbiamo mai abbassato lo sguardo e chiesto favori, che ci manteniamo da soli, noi che ogni giorno vantiamo la nostra terra, che diciamo a tutti di venire a trovarci, di passare le vacanze in Calabria, di venire a verificare con gli occhi che non tutto è marcio, che non siamo assolutamente come ci dipingono giornali e leghisti, noi che ci incazziamo se ci chiamano mafiosi - eppure è meglio non verificarlo fino in fondo, evitare di metterci i piedi in testa.

Perché è un attimo, ci voltiamo e il mafiosetto che abbiamo sulla spalla sinistra ci strizza l'occhio.

Perché non esiste calabrese che non abbia usato almeno una volta la 'ndrangheta come deterrente.

E io, parafrasando un cantautore, non temo il mafioso in sé, ma il mafioso che è in me.