di Claudio Cordova - Un percorso avviato il 14 ottobre 2010 e assai tormentato, che adesso, a distanza di oltre tre anni, trova un decisivo punto fermo, con le motivazioni della sentenza di primo grado del procedimento "All Inside", con cui il Tribunale di Palmi ha inflitto condanne molto dure alla potente cosca Pesce di Rosarno. La protagonista è proprio lei, Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce e collaboratrice di giustizia.
Sposata con Rocco Palaia e madre di tre figli minorenni, Giusi Pesce tenterà per due volte il suicidio in carcere, poi deciderà di collaborare. Un percorso tormentato, che troverà il punto più basso con la missiva del 2 aprile 2011, allorquando la collaboratrice dichiarerà di voler interrompere la collaborazione, accusando i magistrati di averla indotta a rendere dichiarazioni false contro i propri parenti. Una decisione dettata dalle pressioni di una delle figlie, plagiata dai parenti e convinta a far di tutto per riportare la madre – che era diventata una minaccia per il clan – in Calabria: "L'obiettivo era quello di farmi tornare indietro. Sapeva che senza mia figlia non sarei andata da nessuna parte" dirà la giovane collaboratrice al pm Cerreti. Si spezza così il percorso collaborativo, in cui Giusi Pesce era accompagnata da un uomo, cui era legata sentimentalmente con una relazione extraconiugale che, per la prima volta, la "rispettava come donna" e le "voleva bene". Non tanto per la paura di essere punita, in base a quel "codice d'onore" che, all'interno della 'ndrangheta non ammette tradimenti e "corna", ma soprattutto per l'amore nei confronti dei figli, Giuseppina Pesce deciderà di non sottoscrivere il verbale illustrativo (a fine aprile), di uscire dal programma di protezione (maggio) e verrà arrestata per violazione degli arresti domiciliari (giugno). Dal luglio 2011, però, la giovane donna, rassicurata dalla presenza del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, che seguirà tutto il caso, deciderà infine di riprendere il percorso di collaborazione.
Da quel momento non avrà più dubbi e anche in dibattimento accuserà i propri familiari, non senza difficoltà, non senza lacrime e commozione.
La donna ammetterà l'esistenza della cosca Pesce, ripercorrerà le varie gerarchie interne al clan, descrivendo l'ascesa del cugino Francesco Pesce, detto "Ciccio Testuni" e riconoscerà i propri delitti di intestazione fittizia di beni. Dichiarazioni che contribuiranno a far eseguire all'autorità giudiziaria decine di arresti, di sequestrare beni per oltre 200 milioni di euro e, grazie all'attività in aula, di condannare numerosi boss e affiliati a uno dei casati storici della 'ndrangheta reggina.
Una collaborazione che susciterà preoccupazione e terrore tra boss e affiliati, che non solo avranno paura per le conoscenze di Giuseppina (riversate agli inquirenti), ma anche sulla possibilità che altre donne del clan Pesce (figure fondamentali, per come emerso dalle indagini) potessero seguire le orme di Giusi "la pazza": "Il cervello delle femmine è un filo di capello" dice preoccupato in una conversazione intercettata Francesco Pesce.
Dichiarazioni, quelle di Giuseppina, che convinceranno il Tribunale presieduto da Concettina Epifanio, che nelle motivazioni della sentenza "All Inside" userà parole nette sulla collaborazione (contestata, tanto dai parenti mafiosi, quanto da organi di stampa che si faranno, di fatto, strumenti delle volontà della famiglia): "Giuseppina Pesce conosce bene persone e personaggi che ha accusato, per essere sempre vissuta all'interno di una famiglia che a Rosarno, e non solo, ha sempre dettato legge. Ha strettissimi rapporti di parentela con la maggior parte dei soggetti chiamati in correità [...] non ha esitato ad accusare gli affetti più cari: il padre, la madre, la sorella Marina, il fratello Francesco, nei cui confronti non aveva motivo di risentimento o di rivalsa, anzi! La commozione a cui ha ceduto più volte nel corso dell'esame, soprattutto quando si trattava di far sentire la sua voce contro il suo sangue, la dice lunga dell'affetto che Giusi aveva per i componenti del suo stretto nucleo familiare. E se motivo di risentimento, in astratto, poteva avere nei confronti del marito, da cui aveva subito maltrattamenti e umiliazioni, risentita non si è affatto dimostrata nei suoi confronti, anzi! [...] Giuseppina ha accusato anche sé stessa di reati gravissimi; ha parlato solo di fatti da lei conosciuti o direttamente, o per esservi stata in qualche modo coinvolta, o per averli appreso dal racconto delle persone con le quali si rapportava abitualmente, indicando sempre le fonti da cui aveva attinto le sue conoscenze e senza aggiungervi nulla. Lei, che fin dalla nascita ha respirato il clima di sopraffazione e di intimidazione che la famiglia mafiosa alla quale apparteneva diffondeva attorno a sé, non ha avuto bisogno di millantare o di inventare; le è bastato dare la stura ai ricordi, mettendoli in ordine".
Dopo una valutazione così lunga ed espressa in questi termini, la valutazione del Tribunale sull'attendibilità della collaboratrice non può che essere positiva: "Giuseppina ha deciso liberamente e senza alcuna costrizione di iniziare a collaborare con la giustizia e di riprendere la collaborazione, spinta solo dal desiderio di dare ai suoi figli un futuro diverso e migliore di quello che sarebbe loro toccato se fossero rimasti nell'ambiente dov'erano nati e avevano fino a quel momento vissuto; di dargli la possibilità di una vita diversa da come era stata la sua, scandita dalle visite continue in carcere, ora al padre, ora al fratello, ora al marito".