di Angela Panzera - «Gli indizi non si contano, si pesano». Il gup distrettuale Davide Lauro, nelle oltre 200 pagine delle motivazioni della sentenza scaturita dal processo "Padrino", lo scrive chiaramente più volte: «gli svariati servizi di osservazione dinamica, i contatti telefonici, le riprese video, sono idonei a documentare una serie di incontri, di natura riservata, che vedevano tra i protagonisti della catena informativa soggetti già ritenuti, con la forza del giudicato, appartenenti alla cosca Tegano». Il 19 luglio scorso il gup ha infatti condannato presunti boss e gregari della cosca di Archi, quartiere alla periferia nord della città e storica roccaforte della 'ndrina. All'esito del processo abbreviato, il gup ha comminato nove condanne e disposto sette assoluzioni. L'inchiesta "Il Padrino", condotta dal pm antimafia Giuseppe Lombardo, non ha "solo" disarticolato il clan degli arcoti, ma ha spedito in galera presunti favoreggiatori della latitanza del boss Giovanni Tegano arrestato il 26 aprile 2010 dopo 17 anni.
Il "mammasantissima" di Archi era stato sorpreso dagli agenti della Squadra Mobile della Questura reggina in una villetta ubicata a Terreti, zona collinare della città. Il boss Tegano doveva scontare una condanna all'ergastolo. Si era dato alla macchia dal 1995 e con l'operazione "Il Padrino" l'Antimafia ha fatto il punto sulla fitta rete di persone che avrebbero agevolato il boss nella lunga latitanza. Ma non solo, sono stati ricostruiti presunti ruoli mafiosi ricoperti, cariche e gerarchie all'interno della cosca, decimata da diverse operazioni di polizia giudiziaria come quella denominata "Agathos" e "Archi".
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All'esito del processo Francesco Caponera e Antonio Marco Malara sono stati condannati a 6 anni e 4 mesi di carcere ciascuno, Stefano Costantino, Giovanni Malara, Paolo Malara a 6 anni di reclusione ciascuno, Antonio Lavilla a otto anni, Domenico Malara a 6 anni e 8 mesi, Giovanni Pellicano a 9 anni mentre 17 anni furono comminati a Vincenzino Zappia. Il gup Lauro ha invece assolto Francesco Giunta, Sergio Malara, Francesco Marino, Francesco Pellicano, Domenico Paolo Saraceno, Giorgio Saraceno ed Emilio Eugenio Tiara. Molti degli imputati sono accusati di aver aiutato il boss a darsi alla macchia. «In tal modo è stato consentito, scrive il gup, nel periodo di latitanza di Tegano, il necessario scambio di informazioni di interesse operativo per il perseguimento delle finalità del gruppo». Incontri, dialoghi criptici, spostamenti non solo nel covo del latitanti, «tutto spiegabile- chiosa il gup soltanto con l'esigenza di garantire la massima segretezza delle informazioni trasmesse». Nonostante sia stata colpita da numerose inchieste giudiziarie la cosca Tegano è riuscita non solo a gestire il controllo sul territorio, ma anche a mantenere i rapporti con lo storico patriarca Giovanni Tegano e a seguirne le direttive dettate durante la sua latitanza. «Viene fuori, scrive il gup Lauro nelle motivazioni della sentenza "il Padrino", una cosca violenta pronta alle alleanze a alla faida, dedita all'estorsioni, sistematicamente compiute a carico degli imprenditori operanti nella zona reputata di "competenza" (...) Un controllo ed una potenza tale da garantire ai suoi associati lunghi periodi di latitanza, ottenibili soltanto attraverso un'organizzata rete di protezione e assistenza. Attività, chiosa il gup, quelle della cosca in poco o nulla incise dai numerosi provvedimenti restrittivi, in ragione delle capacità di gestire gli affari anche in costanza di reclusione, come dimostrano i numerosi colloqui con i detenuti, per il tramite dei familiari liberi, comunicavano con l'esterno, davano ordini e ricevevano messaggi. In questo panorama si innestano i fatti di questo processo, con continuità di stirpe, di violenza, di intimidazione, di modi e persino di linguaggio, rispetto ai precedenti giudiziari».
Uno dei principali imputati di questo processo è Vincenzino Zappia, esponente di spicco dei De Stefano, storica 'ndrina federata ai Tegano, punito dal gup a 17 anni di carcere. Già sottoposto a misura di prevenzione, già latitante, l'imputato era stato condannato, per il reato di associazione mafiosa dalla Corte d'Assise reggina nel 1999, a sei anni di carcere nell'ambito del processo "Olimpia". «La sentenza è in atti- scrive il gup- e delinea il profilo associativo di Zappia. Il suo rapporto con Giuseppe De Stefano (a cui faceva da autista), la sua particolare vocazione a partecipare alle azioni di fuoco quale killer spietato, le frequentazioni con gli altri, autorevolissimi sodali. Un profilo che è rimasto inalterato nel tempo ed è oggi testimoniato in primo luogo dalle accuse dei collaboratori Roberto Moio, Antonino Fiume, Giovanbattista Fracapane, Consolato Villani e da ultimo Enrico De Rosa». Per il gup quindi l'imputato, dai tempi della sentenza "Olimpia" fino all'inchiesta "Il Padrino", avrebbe continuato a far parte della 'ndrangheta reggina. «Plurimi- è scritto nelle motivazioni- sono gli indicatori della connotazione apicale del profilo associativo di Zappia come il potere di relazionarsi con gli esponenti apicali di altri sodalizi, il potere di selezionare e gestire i proventi delle attività illeciti e l'autorevolezza derivante anche dal ruolo avuto durate la guerra di mafia, necessaria per porsi alla pari degli altri maggiorenti della cosca».