di Alessia Stelitano - Un miliardo di euro, 1.320 megawatt di potenza, 300 posti di lavoro promessi, 140 quelli effettivamente disponibili a regime. Sono questi i numeri della centrale a carbone che la Sei-Repower ha progettato per Saline Joniche (RC): dalla Svizzera alla Calabria per il progetto di uno dei più grossi impianti energetici a carbone dell'intera Europa.
Lì dove dovrebbe sorgere la centrale, oggi rimangono solo i ruderi dell'ex Liquichimica, il mostro creato nel 1974 con i finanziamenti del pacchetto Colombo. Trecento milioni che - ufficialmente – avrebbero dovuto finanziare lo sviluppo industriale di una delle province più depresse d'Italia. In realtà, il Governo centrale doveva comprare la pace a Reggio Calabria, dove i Boia chi molla, guidati dal sindacalista della Cisnal e senatore missino, Ciccio Franco, si erano messi alla testa della rivolta popolare, scoppiata dopo l'assegnazione del capoluogo a Catanzaro. La Liquichimica è la figlia bastarda di quel baratto. Dopo avere speso quel fiume di denaro pubblico, le Istituzioni conclusero che la produzione – bioproteine per mangimi animali - era "altamente inquinante". E l'impianto venne bloccato e chiuso quarantotto ore dopo l'apertura dei battenti. Trecento milioni di lire dell'epoca andati in fumo, seicento lavoratori assunti finiti in cassa integrazione.
A Saline è rimasta solo una struttura divenuta simbolo delle cattedrali nel deserto. Eppure all'epoca, in un territorio affamato di lavoro, piagato dall'emigrazione di massa verso le fabbriche del nord, la popolazione si affidò al grande impianto e ne sostenne la realizzazione, cercando forse un'occasione di riscatto. Le poche voci contrarie subito si affievolirono o furono silenziate. Come quella del direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, che in quel periodo stilò una perizia in cui sconsigliava l'uso di quel terreno perché "altamente instabile". Quelle carte sparirono, il direttore morì dopo poco in uno strano incidente stradale che nessuno fu mai in grado di spiegare e il progetto andò avanti. La Liquichimica contro cui si era opposto si staglia ancora oggi contro l'orizzonte, mentre a quasi quarant'anni di distanza la fascia jonica reggina soffre visibilmente gli stessi bisogni: lavoro, opportunità, sviluppo.
Eppure qualcosa da allora è cambiato. Nel 2007, la notizia che la multinazionale Sei-Repower volesse installare la centrale a carbone, al posto della ex Liquichimica, non ha avuto molto successo tra la gente comune, e non solo. Anche tecnici e intellettuali si sono schierati contro il carbone, come Domenico Marino, docente di politica economica all'università "Mediterranea", che nel novembre 2011 definì "colonizzatori" i dirigenti Sei, "accompagnati da architetti-guru come Italo Rota che ci spiegano come saremmo felici con una centrale a carbone vicino casa".
Ma con lo stesso Ateneo in cui Marino insegna, nel febbraio 2011 la Sei è riuscita a stipulare una convenzione per sei borse di studio da mille euro ciascuna, sostanzialmente all'insaputa del corpo docente e degli studenti che – denunciano – ancora oggi poco e nulla sanno delle "opportunità" offerte dal colosso svizzero. "Questa è ormai un'abitudine dell'Università", ha sbottato Pasquale Speranza, membro del Consiglio di Amministrazione dell'ateneo reggino: "Anche con l'Eurolink – la società che con la Stretto di Messina s.p.a. dovrebbe costruire il ponte sullo Stretto – la Mediterranea ha stipulato una convenzione alla chetichella, com'è successo con la Sei."
Una convenzione che l'ex rettore Massimo Giovannini – le cui dimissioni sono state accolte il 20 aprile scorso, dal Ministero dell'Istruzione – propose una prima volta, poco tempo dopo la sigla dell'accordo con il colosso elvetico dell'energia, ma che non fu mai discussa. Pochi mesi dopo, Giovannini ripropose lo stesso accordo al consiglio di amministrazione. Oggi coordinatore in pectore di quel progetto è il Prof. Corrado Trombetta, docente associato di tecnologie alla Facoltà di Architettura della "Mediterranea" e direttore di un progetto di ricerca sull'energia ricavata dal moto ondoso. Un progetto a impatto ambientale zero. Eppure è proprio lui a fare da console degli interessi della Sei in Università. "Ho una posizione laica – avrebbe detto nel corso di un convegno di Legambiente - l'università non ha soldi, quindi si accetta qualunque cosa per i ragazzi."
Ma il matrimonio tra università e Sei-Repower ha sollevato malumori e mal di pancia, non solo tra i professori, ma anche tra gli studenti. Per il Collettivo Unirc, l'Università non merita più di un "sei (politico) in condotta": l'ateneo ha spalancato le porte alla Sei-Repower, un "ospite inquietante ed errabondo dentro casa", in netta controtendenza rispetto ai tanti docenti che provano ad inculcare una concezione di architettura a basso impatto ambientale.
Ma il mega impianto che la Sei vorrebbe costruire a Saline, non è semplicemente una questione di investimenti e royalties, o di – pochi e rischiosi – posti di lavoro, o di impatto ambientale. È uno scontro tra due modelli di sviluppo contrapposti e inconciliabili, quello che si svolge sull'area dell'ex Liquichimica. C'è chi nella centrale vede un "esempio stimolante, attraverso cui osservare e con cui attivare nuove e vitali dinamiche", come dichiarava lo stesso Italo Rota pochi mesi fa. Dall'altra parte, chi al carbone dice no, sostiene che la centrale sia solo un ecomostro, proposto - oggi come ieri- come cura alla "fame di lavoro" che persiste su questo territorio. In mezzo si colloca l'esperienza di chi con le centrali a carbone ha a che fare da molti anni: chi le vive nel quotidiano, chi le analizza e le studia.
A Saline, il no al carbone ha un nome ben preciso: Coordinamento delle Associazioni dell'Area Grecanica, nato proprio nel 2007, dopo l'annuncio dell'interessamento del colosso svizzero dell'energia. Dentro ci sono movimenti e associazioni, collettivi e sindacati, partiti e comitati anche da Oltralpe, ma soprattutto cittadini comuni, come Francesca Panuccio, Noemi Evoli e Paolo Catanoso. "Spesso siamo tacciati di essere comunisti, e questo ci fa sorridere", raccontano, e tengono a specificare che all'interno ognuno ha la propria idea, ma "la salvaguardia del territorio è trasversale".
La loro spiegazione su cosa sia cambiato nel contesto, tra l'avvento dell'ex Liquichimica e il progetto della centrale a carbone, è molto chiara: "Prima c'era molta più ignoranza, il ricatto del lavoro teneva, poi si è visto che le promesse di lavoro facile e le opere di compensazione sono delle chimere. Basti vedere a Rossano (CS) – l'altro avamposto calabrese del no al carbone: 40 anni fa l'Enel aveva promesso strade e altre opere, che non sono mai state realizzate. È ovvio che quando si è riproposto il progetto della centrale a carbone la popolazione non ci abbia creduto più." E oggi? "Oggi ci sono ragazzi e giovani, che si impegnano, sono informati e hanno studiato. Siamo entrati in rete con gli altri movimenti contro il carbone in tutta Italia. Persone che la centrale la vivono tutti i giorni e che di notte fotografano i fumi neri. Perchè mentre di giorno il fumo esce bianco, sbiancato dalla polvere di marmo, di notte diventa nero. Perchè il carbone è nero, non può diventare bianco."
Gli studi scientifici sull'impatto ambientale delle centrali a carbone e sulle conseguenze per la salute sono molti. E le centrali esistenti ne sono la prova concreta. L'inquinamento nel distretto di Vado-Quiliano, in provincia di Savona - dove una centrale a carbone da 660 megawatt esiste già ed è grande non più della metà di quella che si progetta di fare a Saline – è dovuto per il 35% solo all'impianto, a fronte di un 22% del traffico veicolare. Fra tutti i combustibili fossili, il carbone è quello che produce proporzionalmente la maggior quantità di anidride carbonica, gas ritenuto fra i principali responsabili del cambiamento climatico. Si parla di certificati di emissione per la CO2 prodotta dalla centrale, compensando ogni singola tonnellata di anidride carbonica prodotta. Un paradosso per gli ambientalisti, che fanno notare come alla fine ci si ritroverebbe a pagare per una tecnologia che aumenterebbe di 7,5 milioni di tonnellate l'anno le emissioni di CO2. Costi che probabilmente verrebbero scaricati sulla comunità.
Ma a preoccupare di più e ad essere conosciuto meno è il problema legato alle scorie radioattive che provengono dalle centrali a carbone: a differenza di quanto succede in quelli nucleari, negli impianti a carbone le scorie non vengono filtrate e si disperdono con i fumi. Secondo Dana Christensen, del Laboratorio Nazionale di Energia Rinnovabile del Colorado (USA), le radiazioni emesse da una centrale a carbone sono 100 volte maggiori di una centrale nucleare, a parità di energia prodotta.
Sia negli Stati Uniti sia in Germania si sta scegliendo di abbandonare la tecnologia a carbone in favore delle energie rinnovabili. "Il presidente del CdA di Repower, Kurt Bobst - racconta Francesca Panuccio - la settimana scorsa ha dichiarato che la società ha abbandonato il progetto di fare una centrale a carbone in Germania, dopo aver buttato 7 milioni di euro. Invece in Italia ancora persisterebbero le condizioni, e la domanda è: quali sono queste condizioni?"
La situazione del sito di Saline Joniche è particolarmente delicata: su di esso insistono vincoli archeologici e sulla costruzione della centrale lo stesso ministero dei Beni Culturali ha espresso un parere fortemente negativo. Diciotto aree vincolate e cinque siti di Interesse Comunitario, che stando al progetto dovrebbero essere attraversate dall'elettrodotto destinato a immettere l'energia in rete a Rizziconi, verrebbero seriamente compromessi dal progetto. Tra questi anche una perla che solo oggi sta tornando a nuova vita dopo decenni di spopolamento: il borgo di Pentedattilo, che – racconta Francesca – "solo adesso sta rinascendo. vengono studenti da tutta Italia". Contro un'opera che si preannuncia devastante per il territorio, anche la Provincia di Reggio e la Regione Calabria si sono dichiarate contrarie. Nonostante nell'ultimo anno sulla questione regni un imbarazzante silenzio, allo stato, il piano energetico regionale bandisce in carbone. Da parte sua, l'ex giunta provinciale ha emesso nel 2011 un bando, riproposto lo scorso mese dall'attuale amministrazione Raffa, per un concorso di idee sul waterfront di Saline e la realizzazione di un parco antropico, che non contemplano la costruzione della centrale.
Nonostante questo, il Ministero dell'Ambiente guidato all'epoca da Stefania Prestigiacomo, ha comunque concesso la Valutazione di Impatto Ambientale alla centrale.
Eppure, sul territorio le esigenze e le emergenze sono altre. "Intanto l'area andrebbe bonificata", dice il Coordinamento no carbone, "si era pensato a un parco marino per la Laura C, il relitto a largo delle coste di Saline, ma noi non siamo politici, non spetta a noi fare le proposte." Di certo però, il coordinamento ha le idee chiare, non solo sulla centrale, ma in generale sulle grandi opere, che spesso si trasformano in grandi devastazioni per il territorio. "Se tu sei contro un ecomostro del genere – dichiara Francesca Panuccio - sei anche contro il rigassificatore di Gioia Tauro, o l'inceneritore di Rizziconi che viene spacciato come termovalorizzatore. L'Asl di Gioia Tauro ha riscontrato un aumento delle neoplasie dal 2002 al 2009." Anche per questi impianti, nella zona compresa tra Gioia Tauro, Rosarno e Rizziconi, è stata riconosciuta la Valutazione di Impatto Ambientale. "Noi ne siamo coscienti – dicono dal Coordinamento – ma la nostra battaglia è focalizzata contro la centrale".
E sul progetto elvetico per il sito di Saline Joniche le perplessità sono tante. I comitati per il no sembrano non accontentarsi delle risposte fornite dalla Sei e dai progettisti. Promettono una strenua lotta in difesa di un territorio che dimostrano di conoscere bene.