di Alessia Candito - Quando li ha incontrati per la prima volta, per sua stessa ammissione non aveva la più pallida idea di come si costituisse una società estera, lontana dagli occhi indiscreti di Fisco e magistrati. Ma quella sera dell'aprile 2009, all'hotel Brun di Milano, l'avvocato Vincenzo Minasi ha sentito profumo di affari. E si è messo "a disposizione". In Calabria, hanno accertato i magistrati, lo aveva già fatto in un passato remoto per i Molè e in uno molto più recente per i Gallico di Palmi, occultando patrimoni a rischio sequestro. A Milano invece, per Giulio Lampada e per gli "amici" di quello che gli inquirenti considerano il boss dell'omonimo clan che ha fatto fortuna sotto la Madonnina, Minasi ha tessuto la trama di contatti che sarebbe servita nei mesi successivi a dare vita alla Indres Immobiliare , la società oggi al centro dell'inchiesta che ha portato dietro le sbarre oltre allo stesso legale, due giudici, un medico con il pallino della politica e un boss della ndrangheta al Nord. Ma quella sera del 2009, in quell'hotel del residenzialissimo quartiere Lotto divenuto la corte di Giulio Lampada, nessuno degli ospiti del boss delle nebbie sembrava contemplare un'eventualità di questo genere. Del resto era tutta gente di peso. Anche nei Tribunali . "In quella circostanza conobbi questo Giusti Giancarlo, che io non avevo mai conosciuto professionalmente, quindi non avevo mai avuto a che fare con lui, anche perché all'epoca lo stesso faceva Ufficio Esecuzioni Immobiliari e Fallimenti a Reggio Calabria per cui era fuori dal mio ambito diciamo professionale . Lo conobbi quindi per la prima volta appunto al Brun, dove mi venne presentato da Giulio Lampada, e in quella occasione conobbi anche l'Architetto Pullano, i due erano insieme lì al Brun e, se non vado errato, c'era anche il Dottore Giglio, il Dottor Vincenzo Giglio medico. Credo di sì perché... credo il medico Giglio perché poi Mario lo conobbi in un momento successivo".
A parlare è l'avvocato Vincenzo Minasi che il 27 dicembre 2012 davanti al pm della Dda milanese Paolo Storari, tratteggia con precisione il proprio ruolo nella compagine societaria che ha visto come soci alla pari giudici, professionisti e boss. Dichiarazioni che - annota il pm – sono sostanzialmente identiche a quelle rilasciate da Minasi durante l'interrogatorio di garanzia, dunque per il magistrato dimostrano "l'immediatezza e spontaneità della determinazione collaborativa di Minasi". E tracciano un quadro molto preciso della ragnatela di affari e di contatti grazie i quali Giulio Lampada era in grado di muoversi con destrezza tra Milano e Reggio Calabria, legandosi a doppio filo a personaggi all'apparenza insospettabili, ma maledettamente utili. Come il gip del Tribunale di Palmi Giancarlo Giusti e l'architetto Fabio Pullano, rispettivamente magistrato e perito da quest'ultimo quasi sempre incaricato. "Mi si presentò questo Pullano come una persona che faceva le perizie al Tribunale, e quindi era incaricato dal Tribunale di fare le perizie degli immobili, quindi evidentemente se ci fosse stato qualche immobile appetibile, diciamo qualche immobile degno di rilievo, lui praticamente aveva le mani in pasta; questo per quanto riguarda Pullano. Per quanto invece riguarda Giusti, addirittura era lui che dava le perizie a questo Pullano". Minasi è un vero e proprio fiume in piena davanti ai magistrati. Al pm Storari racconta come sarebbero stati proprio Giusti e Pullano il fulcro della società Indres, con cui la quasi impensabile compagine societaria messa insieme da Giulio Lampada puntava a mettere le mani su immobili confiscati debitamente segnalati. Nei loro confronti- rivela Minasi – gli altri soci avevano una sorta di "deferenza". "Da quello che ho potuto capire – racconta il legale - Giglio e Lampada erano soltanto soci finanziatori. Ed allora questa deferenza nasceva dal fatto che intanto gli affari si potevano fare in quanto c'era Giusti e in quanto c'era Pullano". Ma per Lampada l'inedita alleanza con personaggi di questo calibro, secondo i magistrati, non sarebbe stata solo occasione di nuovi guadagni. L'intera operazione sarebbe servita anche a lavare tutti i liquidi illecitamente accumulati. Il piano – spiega Minasi al pm- era semplice. Ai quattro per operare serviva una società che li rendesse invisibili agli occhi degli inquirenti. Minasi non è in grado di fare operazioni di questo tipo ma sa chi è necessario contattare. E si mette – subito – all'opera. A fornire una soluzione immediata e con la quale sembra avere non poca dimestichezza è il notaio Borelli, un passato da magistrato a Monza e un'attività fiorente da notaio con studio tra Lugano e Milano. "Mi spiegò che era necessario costituire una società italiana, una S.r.l., che sarebbe stata di fatto acquisita dalla società inglese, cioè in buona sostanza la società inglese diventava unica quotista della società italiana, della S.r.l. italiana, la quale, essendo italiana, poteva comprare e vendere quello che voleva nel territorio italiano. Ovviamente, avendo la compagine societaria come unica quotista la società inglese, evidentemente nessuno poteva risalire o immaginare chi ci fosse dietro". Un 'operazione che avrebbe visto Borelli impegnato sul fronte estero e la sua interfaccia milanese, il notaio Gasparro su quello italiano. Insieme progettano un'operazione che in itinere diventerà ancor più impenetrabile e complessa. Spiega ancora Minasi agli inquirenti "in quattro avrebbero dovuto costituire una società offshore nel Belize, la società offshore del Belize non ha nome, ma viene semplicemente portata da un certificato di proprietà. Questo certificato di proprietà sarebbe stato tenuto da Borelli attraverso una scrittura privata, i quattro avrebbero dovuto consegnare al Borelli un mandato per tenere in loro vece il 25% cadauno di questa società del Belize, con una scrittura privata, quindi non pubblicabile, non riscontrabile, eccetera, eccetera, e schermata dalla professione di notaio del Borelli. A sua volta la società del Belize avrebbe comprato la società inglese, e a sua volta la società inglese avrebbe comprato le quote della società italiana". Un labirinto intricato e praticamente impenetrabile che avrebbe dovuto servire "a tutelare queste persone, a schermare queste persone – dirà quasi con foga Minasi davanti al pm - a rendere invisibili queste persone, e queste persone sono Giusti Giancarlo, Giglio Vincenzo medico, Pullano Salvatore e Giulio Lampada, era essenzialmente questa". I quattro si danno appuntamento nell'ufficio dell'avvocato Minasi per definire le fasi del progetto e mettere insieme il denaro necessario per versare la prima tranche al notaio Borelli. "Quando si parlava di fare questa società allora l'Architetto disse "lo metto come anticipo questi 3.300", Giusti mise 3.300 in contanti, Giglio non mise niente perché Giulio Lampada disse "Va be' per Giglio me la vedo io". Oltre 12mila euro. Una parcella salata. Certi servizi – si sa – hanno un costo. Ma poco il meccanismo si inceppa, i soci non si fidano l'uno dell'altro. In attesa della costituzione delle società estere, racconta Minasi ai pm, il legale – a cui, si legge nei verbali dell'interrogatorio "malauguratamente quel giorno capitò di accompagna i quattro dal notaio" - si offre come intestatario della società italiana, che non verrà mai più rilevata da quella inglese. E così – sembra suggerire Minasi agli inquirenti – l'uomo sarebbe rimasto incastrato in una società con cui nulla aveva a che fare. Sembra quasi uno sprovveduto – o almeno questo ha cercato di far credere- Vincenzo Minasi, l'ex legale di Maria Valle, figlia dell'omonimo boss della ndrangheta in Lombardia, che già nel 1994 era stato fermato e in seguito condannato per aver ricoperto il ruolo di prestanome della cosca Molè, ma a suo dire, quasi dieci anni dopo, è rimasto semplicemente incastrato in una ragnatela tessuta da altri. A mettere la pietra tombale sulla costituenda scatola cinese su cui Lampada, secondo gli inquirenti, avrebbe voluto contare per lavare i fiumi di denaro che fluivano dalle casse del suo piccolo impero, sarà il doppio gioco dell'architetto Pullano, che tenta di dirottare i suoi soci su una proprietà battuta all'asta nell'aprile 2010. Una circostanza confermata anche da Giulio Lampada, secondo il quale la costituzione della società avrebbe avuto come obiettivo "un'unica operazione immobiliare su Reggio Calabria, quella del fallimento D'Agostino. Dove abbiamo partecipato, dietro suggerimento dell'Architetto Fabio Pullano, che era il perito se non ricordo male, sì il perito ditale fallimento, all'epoca avevamo presentato il 10%, che corrispondeva a 27 mila euro, abbiamo partecipato a quest'asta".
Un terreno che però – scopriranno Lampada e Minasi che parteciperanno personalmente all'asta- non è esattamente quello descritto dal "socio". L'affare va a monte, i sospetti iniziali si fanno più concreti, Lampada e Giusti – riferisce Minasi – iniziano a temere che Pullano sia un informatore. "Non so chi dei tre, se Giusti, se Lampada o i due Giglio, dicono che questo Pullano in realtà era a libro paga della Dia perché per la Dia lui faceva le perizie dei beni sequestrati, eccetera, e aveva anche delle indagini". Paullano viene allontanato e qualche tempo dopo Minasi cercherà di far sparire in fretta e furia la costituzione di quella società: ma per gli inquirenti le tracce rimarranno comunque indelebili. "In buona sostanza –si legge nelle conclusioni quasi amare del pm - la situazione che si delinea è quella di un gruppo di persone - tra cui un magistrato e un perito del tribunale - che si mettono insieme per compiere operazioni immobiliari davanti allo stesso tribunale dove presta servizio il magistrato e dove il perito presta il suo ufficio. La vicenda pare tanto anomala che gli stessi protagonisti si sentono in dovere di trovare una società in Belize". Ancora più amare le parole con cui il pm Storari decide di concludere le sue affermazioni " ma per Giusti – si legge nelle carte - non è una novità fare gestire in modo eufemisticamente definibile leggero il suo ruolo di giudice della esecuzione e i suoi rapporti con gli altri ausiliari del tribunale"