Così il perito falsificava le trascrizioni per favorire le cosche rosarnesi

intercettazioni19aprdi Angela Panzera - Roberto Crocitta non ha agito soltanto per aiutare «consapevolmente» Domenico Bellocco classe 87 e Francesco Pesce classe 87 ad uscire dal carcere. Il perito trascrittore infedele, finito dietro le sbarre con la pesante accusa di favoreggiamento aggravato dalle modalità mafiose, con la sua condotta avrebbe, sempre «consapevolmente», agevolato le cosche rosarnesi, alle prese con la difficoltà di mantenere la leadership a fronte degli arresti che avevano decimato le famiglie mafiose. Dice questo la sentenza con la quale il tribunale di Reggio Calabria, presieduto dal giudice Andrea Esposito, ha condannato il primo aprile 2014 Roberto Crocitta a 3 anni e 6 mesi, sentenza nella quale i giudici si dicono totalmente d'accordo con l'impianto accusatorio prospettato dal pm antimafia Giovanni Musarò. Per i giudici, il perito avrebbe agito «con la consapevolezza e con la finalità di agevolare non solo Bellocco Domenico classe '87, ma anche, più in generale, l'articolazione territoriale della 'ndrangheta operante in Rosarno e comuni limitrofi nota come società di Rosarno, nonché la cosca Bellocco, che, a sua volta, operava all'interno della società di Rosarno». La scarcerazione di Domenico Bellocco, infatti, si sarebbe tradotta in un vantaggio «sia per la società di Rosarno (per conto della quale il Bellocco si interessava di promuovere nuove affiliazioni), sia per la cosca Bellocco (che in quel momento storico, con tutti i capi e numerosi sodali detenuti, avrebbe certamente tratto vantaggio dalla liberazione di un sodale di tale spessore criminale)».

Domenico Bellocco, collocato sul territorio di Rosarno, con tutti i vertici della famiglia in carcere, era in una posizione di assoluto rilievo, tanto da essere sponsor di gente da affiliare. La sua libertà, dunque, era di assoluto rilievo per la direzione strategica e militare degli affari della famiglia. La falsa perizia di Crocitta, dunque, non consentiva al giovane soltanto di recuperare la libertà ma anche e soprattutto avrebbe consentito alla famiglia «la possibilità di affidare allo stesso ruoli operativi e dirigenziali idonei ad assicurare la continuità della capacità criminale della stessa». Stesso discorso i giudici lo fanno per la famiglia Pesce. Non è ipotizzabile, affermano, che Crocitta ignorasse «la consistenza e l'importanza della famiglia mafiosa Pesce di Rosarno, ovvero le vicissitudini giudiziarie che negli ultimi decenni l'avevano interessata». La consulenza falsa in favore di Francesco Pesce classe 87, figlio primogenito del boss Vincenzo classe '59, figura di primissimo piano nel mandamento tirrenico e legato al capo-crimine Domenico Oppedisano, assumeva una notevole importanza per la cosca sotto un duplice profilo: da un lato perché tutti i capi o i potenziali capi «erano detenuti o latitanti» per cui «la liberazione del figlio primogenito di uno dei boss avrebbe certamente dato nuova linfa all'attività dell'intera cosca»; dall'altro perché la sua scarcerazione «sarebbe stata fondamentale per arginare le prevedibili pretese di Pesce Francesco classe 78 alias Testuni, il quale, pur limitato dallo stato di latitanza, avrebbe certamente tentato di approfittare della detenzione dello zio Vincenzo classe 59 per riprendere in mano il coordinamento di una serie di attività illecite». Quella scarcerazione, dunque, «si sarebbe tradotta in un vantaggio sia per l'intera cosca Pesce sia per l'articolazione della stessa facente capo a Pesce Vincenzo classe 59». Per tale motivo, Crocitta, «calabrese che da quasi vent'anni lavora nei tribunali e che conosce bene le famiglie di 'ndrangheta operanti nella fascia tirrenica» avrebbe agito «con la consapevolezza e con la finalità di agevolare non solo Pesce Francesco classe 87 ma anche l'intera cosca rosarnese o, almeno, l'articolazione della stessa facente capo a Pesce Vincenzo classe 59». In gioco c'era la continuità della leadership, la capacità operativa della cosca, la stabilità dell'iniziativa criminale.

Crocitta, ammanettato l'8 gennaio del 2013, ha così «travisato consapevolmente talune espressioni proferite dai soggetti dialoganti al fine di avvantaggiare in sede procedimentale soggetti in quel momento sottoposti a misura cautelare», in particolare Domenico Bellocco classe '87, ammanettato nell'operazione "Il Crimine"; e Francesco Pesce classe '87, finito in carcere con l'operazione "All Inside". Era in «assoluta mala fede», in quanto «essendo un professionista esperto» sapeva benissimo come calibrare i puntini di sospensione e i vari "incomprensibile", provando a dipingersi, per discolparsi, «come uno sprovveduto». I giudici sono chiarissimi: «non può che convenirsi integralmente con la prospettazione dell'accusa e ritenersi, quindi, che sia stata raggiunta la prova piena per affermare che Crocitta Roberto abbia consapevolmente trascritto il falso per aiutare Bellocco Domenico classe 87 ad eludere le investigazioni dell'autorità». Altrettanto provata la condotta di favoreggiamento per Francesco. Nonostante l'esaustività delle prove, ai giudici preme sottolineare che per smentire quelle perizie sarebbe bastato un semplice ascolto dei nastri. «La prova decisiva – si legge nelle motivazioni - è stata raggiunta dal collegio grazie all'ascolto diretto della conversazione, facendo ricorso al semplice utilizzo di un normale pc e di ordinarie cuffie e dunque senza l'impiego di particolari strumenti tecnici di filtraggio o di amplificazione dei record vocali». Mezzi che Crocitta, esperto trascrittore, voleva far credere non potessero bastare.