Comune Reggio sciolto per mafia: le tappe della vergogna

reggiocalabria palazzosangiorgionottedi Alessia Candito - 20 gennaio 2012. La notizia aveva già iniziato a circolare nel pomeriggio precedente. Animava le discussioni di corridoio a Palazzo S.Giorgio, rendeva più amari i caffè del bar davanti al Comune, divenuto ormai quasi una succursale degli uffici dell'Ente. Ma quando è diventata ufficiale, per molti è stato uno shock: a Reggio Calabria è in arrivo la commissione di accesso antimafia.
Complice forse il mutato clima politico nelle stanze romane - che nei mesi e anni precedenti sembravano aver mostrato un occhio di riguardo per  l'enfant prodige calabrese del Pdl, Giuseppe Scopelliti, e per la sua amministrazione - il Ministero dell'Interno ha deciso di fare luce sul governo di Reggio città e sugli episodi che hanno visto incrociarsi i cammini e le fortune di uomini del Comune e uomini delle ndrine. Episodi diversi, isolati, che forse nulla hanno a che fare l'uno con l'altro. Ma che messi in fila sembrano decisamente troppi per essere semplicemente ricondotti alla mera sfortuna o casualità, cui i protagonisti hanno a più riprese fatto appello. Episodi sui quali il Ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, all'indomani dell'insediamento, ha chiesto al prefetto Luigi Varratta di riferire in dettaglio. Ed è a partire da quella relazione che il 20 gennaio scorso,  il Ministero ha spedito in riva allo Stretto tre commissari che per sei mesi hanno indagato sulle presunte infiltrazioni della ndrangheta nell'Ente. Un lavoro per nulla facile per l'ufficiale della Guardia di Finanza, Michele Donega e i viceprefetti Valerio Valenti e Antonio Giaccari, coadiuvati da tre alti ufficiali da tempo in servizio a Reggio, il colonnello dei Carabinieri, Carlo Pieroni, il suo pari grado al Gico della Guardia di Finanza, Gerardo Mastrodomenico e il funzionario della sezione anticrimine della Questura, Enrico Palermo, ai quali è toccato passare al setaccio non solo quanto – e non è poco – è emerso nelle inchieste degli ultimi anni, ma anche vagliare vicende ambigue che hanno coinvolto diversi consiglieri e uomini del Comune. Fatti spesso irrilevanti dal punto di vista penale, ma che gettano ombre pesanti sulla classe politica che ha governato la città.
Quintali di dati, carte, fatti e circostanze che per sei mesi sono passate sotto gli occhi esperti dei commissari, obbligati a chiedere una proroga rispetto ai tre mesi di prammatica per avere la possibilità di analizzare in dettaglio tutto il materiale.  Del resto, non c'è inchiesta che non abbia visto comparire il nome di politici più o meno in vista della città. Un rosario di telefonate, incontri, riferimenti, contatti che si dipana lungo tutti i procedimenti avviati dalla Dda di Reggio Calabria come di Milano o Torino. Come quello che solo poche settimane prima che la commissione si insediasse ha coinvolto  l'ex assessore all'Ambiente, Giuseppe Plutino, arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa con il clan dei Caridi.

Le amicizie pericolose dell'assessore
Accolto con applausi e grida di sostegno dai ragazzi di San Giorgio Extra – periferia sud della città, regno incontrastato dei Caridi-Borghetto-Zindato – mentre in manette viene portato in carcere dopo l'arresto, "compare Pino", al secolo Giuseppe Plutino, per i magistrati  era il "referente politico del sodalizio cui forniva  un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo". È per questo che la cosca Caridi, secondo i pm, lo aveva appoggiato, trasformandolo da semisconosciuto consigliere di periferia, transitato dall'Udc al Pdl, a campione delle preferenze, proiettato nell'Olimpo dei primi cinque eletti in città. A tutte le consultazioni elettorali cui ha partecipato, il clan aveva votato e fatto votare Giuseppe Plutino, facendo convergere su di lui non solo le preferenze degli affiliati, ma anche di quanti fossero sotto il loro controllo. Come la comunità rom, insediata da decenni in uno dei quartieri in mano alla cosca e sulla quale i Caridi-Borghetto–Zindato esercitano un ferreo controllo. E tanto impegno ha dato i suoi frutti. Plutino ha saputo essere riconoscente, elargendo favori e attenzioni, procurando posti di lavoro e prebende, o semplicemente risolvendo problemi sollevati da esponenti della clan.
La ndrangheta, riflette nelle sue conclusioni il gip Santoro, accettando le richieste dei pm "dimostra di poter contare su uomini posti in settori strategici dell'amministrazione e per questo diviene punto di riferimento anche per il soddisfacimento di istanze legittime, se non sacrosante, dei singoli individui che però non possono essere garantite se non col ricorso al 'piacere' richiesto al 'compare' o 'all'amico degli amici'". Istanze come il pagamento delle mensilità arretrate agli operai della municipalizzata Multiservizi o la rimozione dei rifiuti presenti davanti ad alcune abitazioni. Problemi che forse ad altre latitudini non necessitano dell'intermediazione di una cosca per essere risolti, ma che a Reggio Calabria sono diventati patrimonio dei clan e moneta di scambio. Una degenerazione pericolosa, che anche il pm Marco Colamonici ha voluto sottolineare "si tratta di un formidabile grimaldello in grado di piegare la società civile al rapporto con la 'ndrangheta, finendo con il creare proselitismi e rispondendo ad una delle finalità dell'agire di questa, incrementare il proprio prestigio e la propria potenza criminale".

Operazione Sistema
Ma l'ex assessore Plutino non è l'unico esponente del governo –presente o passato - della città  che abbia dimostrato familiarità nei rapporti con i clan locali. Un'altra indagine della Dda di Reggio Calabria, l'operazione Sistema, solo un mese prima dell'arresto di "compare Pino" aveva svelato i rapporti fra la cosca Crucitti – dominus del quartiere di Condera-Pietrastorta, periferia nord della città – e l'attuale assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Reggio, Pasquale Morisani, cui i pm dedicano un intero capitolo dell'ordinanza di custodia cautelare, il cui titolo "i tentativi di infiltrazione della cosca Crucitti nell'attività politica" lascia spazio a ben pochi dubbi. Per i giudici, il politico, in occasione delle comunali del 2007, si sarebbe rivolto al boss Santo Crucitti. "Inequivocabili", scrivono i giudici "sono le discussioni avvenute all'interno dell'ufficio in uso a Crucitti Santo a ridosso delle predette consultazioni, laddove emergeva l'impegno di quest'ultimo nel dirottare le preferenze elettorali di soggetti a lui vicini - quali, tra gli altri, Quattrone Sergio, Scaramozzino Francesco e Silva Massimo – a favore del succitato consigliere". Eppure, l'assessore Morisani – che oggi professa estraneità e onestà - non risulta neanche indagato. A suo carico gli investigatori non sono stati in grado di accertare nulla di penalmente rilevante, eppure non è la prima volta che il nome dell'assessore appare nelle carte di investigatori e magistrati. I suoi rapporti, almeno di conoscenza, con individui piuttosto loschi della medesima zona di influenza del clan Crucitti, erano stati certificati già nell'indagine "Pietrastorta" di qualche anno fa, quando Morisani venne pizzicato a parlare di voti con Giuseppe Romeo, poi condannato in primo grado per associazione mafiosa.
Anche allora, a carico del politico, nulla di penalmente di rilevante. Ma oggi, a tre anni di distanza da quell'indagine, ancora una volta i magistrati non possono far a meno di sottolineare "il tentativo di condizionamento politico perpetrato dall'organizzazione attenzionata, concretizzatosi nel supporto garantito da Santo Crucitti e dai suoi accoliti a beneficio di Pasquale Morisani, candidato nelle consultazioni comunali del 2007 in una lista civica a sostegno dell'elezione del sindaco Scopelliti".
Ma Morisani non era l'unico politico con il quale la cosca Crucitti fosse in contatto. Sempre nell'ambito della medesima indagine è emerso che il consigliere comunale Dominique Suraci avrebbe fatto ottenere alla FinReggio, agenzia di servizi finanziari riconducibile al clan, una convenzione con 380 dipendenti della Multiservizi S.p.A., la società mista del Comune, caduta in mano fin dalla sua costituzione – rivelerà un anno più tardi l'inchiesta Astrea – al potentissimo clan Tegano. E proprio grazie alla prosecuzione delle indagini sulla cosca Crucitti e le sue proiezioni istituzionali, confluita poi nel fascicolo Sistema – Assenzio,  anche Suraci, pochi mesi dopo l'ex assessore Plutino, finirà in manette con l'accusa – pesantissima – di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale aggravata dalle modalità mafiose.
Per gli inquirenti, l'ex consigliere comunale, destinatario di due diverse ordinanze di custodia cautelare, sarebbe un vero e proprio "dominus" che, attraverso le proprie condotte, avrebbe drogato tanto l'economia, tanto il libero voto. Un ruolo che l'allora sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Marco Colamonici, ha sintetizzato con parole durissime ma estremamente chiare nella richiesta d'arresto per l'ex consigliere, definito senza mezzi termini il "principale referente della famiglia De Stefano-Tegano nel settore della grande distribuzione alimentare, nonché importante interlocutore politico della stessa, atteso il ruolo di consigliere che il predetto ha rivestito nel Comune di Reggio Calabria: protagonista di un'azione volta a favorire gli interessi criminali dell'anzidetto casato di 'ndrangheta e le articolazioni territoriali di cui lo stesso si avvale (quale la cosca Crucitti), sfruttando il ruolo politico ricoperto e dell'influenza esercitata all'interno di società miste quali la Multiservizi S.p.A. Può dirsi che il Suraci rappresenta il prototipo dell'esponente di quella tanto invocata 'zona grigia' costituta da soggetti appartenenti alla presunta 'società civile' che non solo non scelgono di affrancarsi dalla realtà criminale nell'ambito della quale vengono ad operare, ma scelgono consapevolmente di stringere con la stessa un rapporto di mutuo interesse".
Un interesse che per Dominique Suraci si concretizzerà in una valanga di voti tanto alle comunali del 2007, quando con il partito "Alleanza per Scopelliti", che sosteneva il centrodestra dell'attuale Governatore,  si affermerà come candidato più votato della propria lista, inserita nella coalizione vincente, come alle regionali del 2010, quando – sempre in appoggio a Scopelliti, si candiderà nella lista "Libertà e Autonomia – Noi Sud", ottenendo 1762 voti.
Uno strepitoso successo elettorale che Dominique Suraci avrebbe ottenuto proprio grazie all'appoggio delle cosche, invitate dall'ex consigliere tanto a convertirsi in fornitori esclusivi dei suoi supermercati – gli stessi che ha più volte svuotato, portato al fallimento per poi riappropiarsene  per interposta persona – tanto a diventare il suo principale interlocutore elettorale . Una fiducia ben riposta, come assicurerà al diretto interessato Carmine Polimeni, numero due dei Tegano e genero del boss Giovanni, che ascoltato dagli inquirenti che lo intercettano, a Suraci assicura: "Con te l'abbiamo preso l'impegno, Dominique".
Impegno che si è concretizzato anche nella possibilità di gestire delle personalissime clientele in una società – la municipalizzata Multiservizi,divenuta feudo dei Tegano. Proprio lì infatti, alla vigilia delle consultazioni del 2007, l'allora aspirante consigliere comunale riuscirà a stabilizzare 130 dipendenti. Del resto, afferma lui stesso in una conversazione intercettata, all'ex direttore operativo  della società Giuseppe Rechichi -oggi condannato in primo grado per associazione mafiosa - avrebbe potuto chiedere "la luna". Ma sono bastati centinaia di volti e campo libero in quella che era una delle principali società miste della città, oggi sciolta per infiltrazione mafiosa.

Le mani della ndrangheta sulle municipalizzate della città
E proprio la Multiservizi è stato uno dei nodi su cui il lavoro dei tre commissari è andato più a fondo, nell'intento di capire fino a che punto i Tegano fossero riusciti ad avvicinarsi al cuore della macchina amministrativa della città, senza che nessuno se ne accorgesse. Protetti da un sistema complesso di scatole cinesi, i boss – ha rivelato l'inchiesta Astrea -anche dal carcere hanno continuato a tenere saldamente in mano le redini delle imprese partner della Multiservizi. O meglio dell'impresa. Perché le società Com.Edil Srl, Si.Ca srl e Rec.im Srl, nonostante negli anni abbiano formalmente cambiato nomi e proprietari, da sempre rispondono a una medesima identità economica e gestionale, quella del clan Tegano. Del resto, Giovanni Tegano, l'anziano boss da tempo in carcere, poteva disporre non solo di picciotti e gregari, come i Lavilla o i Rechichi, che di padre in figli, si sono tramandati la fedeltà e il ruolo da prestanome del clan. Ma anche e soprattutto, di quei professionisti che hanno costruito il labirinto contabile utile per lungo tempo a depistare gli investigatori. Come la talpa Giovanni Zumbo. Uomo ormai noto tanto alle cronache come alle Procure, Zumbo, almeno dal 2002 sarebbe stato il regista della strategia finanziaria dei Tegano. Commercialista di professione, con un passato da amministratore di beni confiscati, ben visto nel centrodestra locale – può vantare un incarico da assistente dell'ex assessore al personale e oggi sottosegretario della Giunta regionale Alberto Sarra - ex collaboratore dei servizi segreti, accreditato presso uffici giudiziari e agenzie di sicurezza, Giovanni Zumbo un anno fa è stato pizzicato dagli investigatori a soffiare preziose- e riservatissime - informazioni su indagini in corso a boss di primo piano, come Giuseppe Pelle, dominus della ndrangheta della jonica, e Giovanni Ficara. Ai Tegano invece – sostengono gli investigatori – avrebbe messo a disposizione le proprie competenze professionali per mettere il patrimonio del clan al riparo dalle attenzioni della Procura.
Manovre cui il Comune, nel corso degli anni, ha assistito da spettatore, senza disporre alcun tipo di verifica. Eppure, in quegli anni l'amministrazione comunale aveva un'arma in più cui appellarsi nella gestione di appalti e commesse: la "clausola di gradimento", ovvero la norma che prevede che il trasferimento a terzi delle azioni sia subordinato al motivato gradimento del Cda, nel quale il Comune possiede la maggioranza. Limite ribadito tanto nello statuto della municipalizzata, tanto nella delibera che le ha dato vita. Ma qualsiasi arma risulta spuntata se la vittima non ha interesse a difendersi. Nessuno negli anni ha avuto da ridire sulla girandola di soci che sono entrati nell'orbita della Multiservizi. E adesso toccherà ai commissari capire se si sia trattato di mera negligenza.
Del resto, che le società miste del Comune di Reggio Calabria fossero finite in mano alla ndrangheta lo avevano rivelato anche numerosi collaboratori di giustizia. Solo pochi mesi fa, il 19 ottobre, il pentito Roberto Moio, nipote del boss Giovanni Tegano, nel corso del dibattimento d'appello del processo "Testamento", ha rivelato "la Fata Morgana è gestita dai Zito-Bertuca. La Leonia ce l'ha Giovanni Fontana che prende i soldi e li divide con le altre famiglie. Non so se anche con i politici. Io ho conosciuto De Caria. So che alla Leonia hanno assunto Rocco Melissari e Rocco Mandalari, cognato di Enzo Zappia. La Multiservizi, invece, è molto più gestita da noi Tegano, anche per via del fidanzamento tra il figlio di Peppe Richichi con la nipote di mia moglie." La ndrangheta che conta, dunque, quando c'è da fare affari si siede allo stesso tavolo della politica.

Il fiume in piena dei pentiti
Ma nel corso di quell'udienza, che vede alla sbarra insieme al clan Libri l'ex consigliere comunale di An e fedelissimo dell'ex sindaco Giuseppe Scopelliti, Massimo Labate, Moio parla anche e in maniera diffusa dei rapporti diretti che il suo clan, quei Tegano padroni di Reggio città, ha con la politica. "I Tegano avevano ottimi rapporti con l'Amministrazione. Hanno sempre candidato qualcuno, hanno sempre appoggiato i politici. La maggior parte erano di destra". Dalla bocca del collaboratore escono i nomi di tanti esponenti del centrodestra reggino: l'assessore comunale Demetrio Berna, l'ex senatore missino Meduri, l'attuale segretario dell'Ugl Antonio Franco, il più volte consigliere ed ex Assessore comunale al bilancio, Peppe Agliano, l'ex parlamentare Margherita, Gigi Meduri. Unica eccezione, Nino De Gaetano, ex consigliere regionale di Rifondazione Comunista, transitato al Pd dopo essere stato accusato dal partito di essersi appropriato di circa 70mila euro. Per il resto, nei ricordi del pentito c'è spazio per la maggior parte dei pezzi novanta della destra della città di Reggio prima, della Regione poi. «I Tegano avevano rapporti ottimi con l'amministrazione. – ha svelato Moio – Hanno sempre candidato qualcuno, hanno sempre appoggiato i politici. La maggior parte erano di destra. Gigi Meduri, Renato Meduri, il dottore Cellini (quando si è portata la sorella). Ad Antonio Franco gli abbiamo raccolto voti, così come a Raso. Questi erano i frequentatori, e con questa parola intendo i politici che salivano nel palazzo dei miei zii. C'ero io direttamente a quegli incontri. Di solito abbiamo votato sempre a destra. A sinistra ultimamente abbiamo portato a Nino De Gaetano. Lo appoggiava Bruno Tegano per fare un favore al dottore Suraci c'è stato sempre vicino, durante e dopo la guerra di mafia. De Gaetano lo abbiamo aiutato moltissimo», ha ricordato in dettaglio il collaboratore, interrogato dal pm Francesco Mollace. Nelle sue dichiarazioni finisce anche il vicepresidente del Consiglio Regionale, Alessandro Nicolò: "Abbiamo aiutato anche lui, ha fatto una festa in un locale nella discesa del Liceo Industriale", ha affermato Moio.
Ma nonostante il numero dei politici coinvolti, la rivelazione che fa più rumore è quella che riguarda l'ex sindaco e attuale governatore, Giuseppe Scopelliti. "Abbiamo sempre votato il sindaco Scopelliti attraverso Peppe Agliano", ha ricordato il pentito, "con lui avevamo rapporti ottimi. Qualche volta è salito anche dai miei zii. Agliano è venuto a chiedere i voti. Abbiamo appoggiato Scopelliti negli anni passati anche tramite Antonio Franco. Votammo sia lui che Scopelliti". Affermazioni ovviamente tutte respinte al mittente - in modo più o meno indignato - da tutti gli interessati. Incluso l'attuale governatore, che prima di Moio, già quattro diversi collaboratori di giustizia avevano già indicato come l'uomo su cui le cosche puntavano. Nino Lo Giudice il 7 dicembre 2010: "Gli abbiamo dato i voti io e la mia famiglia". Giovanbattista Fragapane, ex killer dei De Stefano, pentito dal 2004 :"Alle elezioni sentivo sempre il nome di Scopelliti". Nino Fiume, imparentato con i De Stefano e collaboratore di giustizia: "Ero amico del sindaco, lo conosco da quando l'ho appoggiato politicamente". Paolo Iannò, ex braccio destro del "Supremo" Pasquale Condello: "In relazione a Giuseppe Scopelliti si diceva che era appoggiato dalla 'ndrangheta già da quando ero latitante".
Nessuna delle loro affermazioni – bollate come menzogne dal governatore - si è trasformata in un procedimento giudiziario, ma sono frasi che rendono sempre più sottile e traballante il filo su cui Scopelliti – che già deve rispondere di abuso d'ufficioe falso in atto pubblico nell'ambito dell'inchiesta sulla voragine di 118 milioni di euro nei conti del Comune di Reggio Calabria- si trova a camminare. Principale indiziata e attualmente unica colpevole di quel buco di bilancio, che rischia di mandare la città calabrese in default, è l'ex dirigente della sezione Bilancio, da sempre braccio destro dell'attuale governatore. Morta suicida poco più di un anno fa, proprio quando i magistrati stavano stringendo il cerchio sulla creativa gestione dei conti dell'Ente.
Ma non è semplicemente il crack finanziario a gettare ombre su un'amministrazione durata otto anni e i cui protagonisti oggi sono in buona parte transitati nei palazzi della Regione, al seguito dell'ex sindaco, eletto governatore alle regionali del 2010. Molti degli uomini che all'epoca sostenevano quella maggioranza in Comune, sono diventati nel corso degli ultimi due anni protagonisti delle cronache giudiziarie. E non in veste di eroi positivi.
Nel giugno 2010, l'inchiesta Meta - che ha svelato le nuove dinamiche criminali della città, presa in ostaggio dalle ndrine un tempo nemiche ma oggi strette da un'alleanza di ferro dei De Stefano, Tegano e Condello – chiama in causa Manlio Flesca e Michele Marcianò, all'epoca consiglieri comunali in quota An.  A Flesca, oggi rinviato a giudizio per corruzione elettorale, i magistrati imputano uno strettissimo rapporto con i fratelli Barbieri, alla sbarra per associazione mafiosa proprio nell'ambito del processo Meta. In nome dei più che amichevoli rapporti – prolungati negli anni e cementati con favori e voti – con i due imprenditori che i magistrati ritengono al servizio della cosca Buda-Imerti, l'allora consigliere comunale di An avrebbe promesso a Vincenzo Barbieri l'assunzione della moglie, Vincenza Musarella, alla Reges, la società mista del Comune di Reggio Calabria che si occupa della riscossione dei tributi.
Michele Marcianò invece, poteva vantare amicizie nelle alte sfere della ndrangheta che conta. Il suo referente era l'ex super-latitante Cosimo Alvaro,  membro dell'omonima famiglia di 'ndrangheta di Sinopoli, arrestato nel luglio dell'anno scorso. Già assolto dall'accusa di voto di scambio nel 2000 nell'ambito processo "Prima" (Alvaro Antonio + 63), l'ex consigliere comunale oggi passato alla Provincia, Marcianò sembra non essersi fatto scoraggiare dalle "disavventure giudiziarie" ed ha continuato ad intrattenere rapporti con la cosca di Sinopoli. Nel corso dell'indagine Meta, il consigliere comunale viene infatti pizzicato dagli investigatori a chiacchierare con estrema familiarità proprio con il superboss allora latitante, con il quale –si legge nelle carte – discuteva di "argomenti politico mafiosi. In particolar modo, tale attività ha consentito di accertare la piena disponibilità dello stesso Marcianò Michele, allora vice presidente del Consiglio comunale, con l'indagato Alvaro Cosimo, per la realizzazione di "progetti" aventi come fine la formazione di nuovi gruppi politici, inserendo giovani universitari. Questi ultimi avrebbero goduto del sostegno politico del Marcianò, il quale avrebbe garantito attraverso le sue amicizie a livello politico nazionale, nomine dirigenziali all'interno degli stessi partiti politici. Il tutto vedeva un appoggio incondizionato del Marcianò nei confronti dell'Alvaro, per l'attuazione di intenti comuni". I gruppi politici in questione erano i neonati Circoli della libertà, i cui iscritti Marcianò aveva tutto l'interesse a far lievitare. Allo scopo, era disposto a mettere a disposizione del boss e dei suoi uomini anche gli uffici del Comune: "io ora ti faccio l'esempio: al comune, eh... quando venite al comune, quando volete venire al comune salite sopra a Palazzo San Giorgio... avete un computer, avete due segretarie, avete, li mandate dove volete, fate quello che... io dove... autorizzo io per quanto riguarda voi si devono mettersi a disposizione ah!!... e incominciamo il lavoro... ragazzi dobbiamo iniziare il lavoro, io più di quello che vi posso dire... allora che dobbiamo fare?".
Dell'operazione "Epilogo" diventa invece involontario protagonista, il consigliere comunale Antonino Serranò. Immortalato dalle telecamere dei Ros, il 31 dicembre 2008, il politico entra all'interno rivendita "4x4", nella zona controllata dalla cosca Serraino. L'uomo che lo accompagna è Francesco Russo, membro del clan. In mano, Russo ha una pistola. "Non funziona bene" dice. Serranò commenta, netto e con fare esperto "dipende dal caricatore". Chiede e ottiene la pistola, scarrella e continua a discutere dell'arma con l'uomo del clan Serraino, fino a quando l'arrivo improvviso di un poliziotto non spinge i due a nasconderla. Anche quest'episodio non ha avuto alcuna rilevanza penale, così come a nulla sono approdate le dichiarazioni del pentito Giuseppe Fregona, che vogliono la cosca dei Serraino vicina all'attuale presidente del consiglio comunale ed ex assessore alla Pubblica Istruzione, Seby Vecchio  tanto da affidare a un loro uomo di fiducia, Antonino Pitasi, il compito di seguirne "la campagna elettorale nel corso delle consultazioni elettorali del 2007". Un'affermazione confermata - tanto in sede di interrogatorio, come in pubblica udienza - anche da un secondo pentito, Marco Marino, giovane rapinatore vicinissimo al clan Serraino che non più tardi di un paio di giorni fa è tornato a parlare dei legami fra quello che gli investigatori considerano il reggente del clan della montagna, Alessandro Serraino, e l'attuale presidente del consiglio comunale.
Ancora, più di recente, a mettere in imbarazzo un assessore – o meglio un ormai ex assessore della Giunta che attualmente sostiene il sindaco Arena – è stata l'operazione Lancio, che dietro le sbarre ha portato i fiancheggiatori del boss latitante Micu u Pacciu, al secolo Domenico Condello. Tra loro c'è anche  Giuseppa Santa Cotroneo, madre di Giampiera Nocera, la compagna dell'assessore. E questo non è l'unico legame ingombrante che la famiglia Nocera potesse vantare con la cosca Condello: Bruna, sorella di Giampiera dunque cognata di Tuccio, è la moglie di Pasquale Condello (cugino omonimo del "Supremo") detenuto da molti anni nel carcere di Voghera dove è rinchiuso anche suo cognato, il boss Nino Imerti conosciuto con il soprannome di "Nano Feroce".
Circostanze di cui l'ex assessore ha negato di essere a conoscenza quando – fra mille indignate dichiarazioni contro "l'ingiusta macchina del fango" che lo avrebbe colpito – ha rassegnato le dimissioni. Peccato che a sbugiardarlo ci penserà solo pochi mesi dopo il decreto con cui il Ministero dell'Interno ha disposto il 41 bis per il boss Nino Imerti, detenuto a Voghera assieme al cognato di Tuccio. A richiederla, il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo che ha dimostrato come il boss stesse tentando di coinvolgere soggetti esterni al circuito giudiziario per ottenere benefici detentivi. A sostegno della sua tesi, una serie di  intercettazioni registrate in carcere, come quelle captate il 16 settembre 2010, quando a colloquio con il Nano Feroce ci sono Pasquale Condello junior, la moglie Bruna e la moglie dello stesso Imerti. Dicutono della recente gravidanza di Giampiera, sorella di Bruna Francesca. È l'occasione che serve a Nino Imerti per chiedere alla cognata di "porgere i propri saluti a Luigi Tuccio", aggiungendo – scrive sempre il pm Lombardo – di fargli presente che conosceva suo padre "...che è stata una brava persona sempre...nei processi... no ma anche quando faceva i processi... se poteva aiutare...". E riferendosi al sostegno elettorale che la cosca avrebbe garantito al Pdl, Nino Imerti ha ricordato: "Sa pure.. però sa pure che gli date tutti... sa pure che i voti glieli date a... o non lo sa?". "Sa tut...", rispondeva la cognata, ascoltata dalle cimici dei Ros. Tutte registrazioni che plausibilmente sono finite sul tavolo già affollato di carte, di ombre e di fango degli ispettori ministeriali, che hanno lavorato duramente sei mesi per stilare le 230 pagine di relazione destinate al Viminale. Una relazione pesante secondo le indiscrezioni, che il Ministero ha valutato con attenzione. Ma che in città – forse – è stata addirittura superflua perchè il giudizio – da tempo - è unanime: Reggio è marcia.