di Sergio Laganà*- L'iscrizione nel registro degli indagati di due Pubblici Ministeri che avrebbero occultato prove ritenute decisive per la difesa di alcuni imputati offre spunti di riflessione.
Di fatto, i PM decidono quando il quadro indiziario raccolto sia maturo per iscrivere nel registro degli indagati un soggetto e attivare l'esercizio dell'azione penale. Altresì, è - di fatto - consentito allo stesso Ufficio di selezionare quali elementi siano da allegare al fascicolo del PM.
Questa situazione si riscontra ogni volta (spesso) che si incorre in indagini complesse per fatti articolati che esplorano reati di relazioni ritenute penalmente rilevanti, siano reati associativi o plurimi.
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In questi casi, le scelte dell'Ufficio di Procura sono o di formare maxi processi, oppure, di distribuire il quadro probatorio raccolto in più filoni.
Ebbene, nel primo caso sia il Giudice, sia il Difensore, sono quasi sopraffatti da una mole di atti da valutare singolarmente in poco tempo, per esempio, in caso di misure cautelari. Contrariamente ai Pubblici Ministeri che posseggono l'apparato investigativo che istruisce e supporta il loro lavoro.
È necessario evidenziare le difficoltà nelle quali si trova la Difesa nel rincorrere il quadro completo delle fonti di prova, specificatamente, i contenuti dei brogliacci delle captazioni in atti (l'elenco riassuntivo di tutte le conversazioni, non ritenute rilevanti), che rimane sempre più nell'ombra a causa delle ultime riforme sulle intercettazioni. Si è sacrificato, infatti, sull'altare della giusta e sacrosanta tutela della privacy, il diritto a ottenere senza filtri e difficoltà tutto il materiale intercettativo utilizzato e acquisito nella fase delle indagini. Tanto che i brogliacci che contengono i contenuti sintetici delle intercettazioni ritenute non rilevanti non sono versati nel fascicolo del PM e hanno una loro stringente procedura di acquisizione e conoscenza.
La conseguenza pratica di questa disciplina è che, in assenza di grandi mezzi finanziari e organizzativi dei Difensori e dei loro assistiti, è diventato oggettivamente difficile verificare se sussistono elementi di prova di innocenza che siano sfuggiti o che non siano stati valorizzati dagli inquirenti e versati in chiaro nel loro fascicolo posto nella disponibilità delle parti private con l'avviso di conclusione delle operazioni di intercettazione. La circostanza non è di poco conto.
A volte segna il confine tra una condanna oltre ogni ragionevole dubbio e una assoluzione.
Parallelamente, in una situazione di frammentazione di procedimenti che scaturiscono da un unico filone investigativo, potrebbe riscontrarsi il tentativo di organizzare i fascicoli con criteri di omogeneità indiziaria, inserendo nei fascicoli paralleli le fonti di prova disomogenea.
Altre volte potrebbe capitare, astrattamente, che si aprano fascicoli paralleli solo per inserire atti contraddittori con quelli versati nel fascicolo principale. La vigilanza su questo tipo di fenomeno è solo interna alla gerarchia del medesimo Ufficio.
Il PM rappresenta lo Stato nella potestà punitiva, quindi è giusto che abbia diritto a valutare prioritariamente tutti gli elementi e che possegga gli strumenti per accertare i fatti di reato.
Ma al momento delle conclusioni delle indagini l'indagato ha il diritto alla completa ed effettiva conoscenza di tutti gli atti a suo carico e discarico.
La problematica illustrata conduce immediatamente al dibattito sulla responsabilità dei magistrati per gli errori commessi e alla questione attinente alla separazione delle carriere, infine, alle disfunzioni del CSM.
Tutte le proposte di referendum in questi settori non appaiono risolutive dei problemi che pretenderebbero di risolvere.
La verifica di prassi erronee, di errori nella cura dei vari fascicoli o di abusi dolosi, infatti, non è risolta né con la maggiore capacità di attribuire l'errore giudiziario al singolo giudice.
D'altronde se si muovesse dall'analisi della magistratura come "sistema" che tutela sé stesso, sarebbe facile assistere, per paradosso, a "cordate" di tutela che cristallizzerebbero i provvedimenti emessi, quindi, un innocente condannato in primo grado subirebbe la stessa sorte nei gradi successivi solo per validare quell'indagine o quel dato dibattimento.
Neppure il problema di eventuali errori o abusi giudiziari sarebbe risolto con la separazione delle carriere.
È indubbio che i migliori magistrati si formano con esperienze sia inquirenti che giudicanti; peraltro, i migliori magistrati sono quelli più maturi in diritto e psicologicamente più sereni, e tutto ciò prescinde dalla struttura organizzativa nella quale si compie la loro carriera.
Infine, la diversa elezione del CSM non scalfirebbe il rischio di uno scadimento "corporativo e scambista", per come il caso Palamara ha dimostrato esistere.
Invero, la soluzione potrebbe essere data dalla creazione di un ruolo separato, selezionato autonomamente dal concorso per magistrati, di alti funzionari dello Stato, legati al segreto d'ufficio, con pregnante ruolo ispettivo (anche preventivo, legato a criteri oggettivi per le verifiche, concependo pure meccanismi di tutela degli atti istruiti, senza che tale attività venga vissuta come atto di pressione nei confronti di chi opera) e di analisi dei fascicoli aperti e/o definiti.
L'analisi indipendente sulla qualità degli atti prodotti, delle prassi utilizzate dai singoli Uffici, nonché, delle modalità di gestione e cura dei singoli fascicoli, garantirebbe l'effettivo controllo finalizzato a mettere a nudo errori e abusi.
A quel punto, l'attività disciplinare sarebbe veramente effettiva, ma, soprattutto, sarebbero costantemente segnalate e implementate le migliori pratiche nell'amministrazione della giustizia.
*Sergio Laganà, avvocato