di Mariagrazia Costantino* – Ho passato l’estate ad aspettare e leggere.
Ho aspettato che il caldo e il malessere che questo porta andassero via, e ho letto un libro la cui apertura rimandavo da tempo. Mentre leggevo il libro guardavo la serie da esso tratta. Il libro è The Handmaid’s Tale, in italiano “Il racconto dell’ancella”, della scrittrice canadese Margaret Atwood. La serie, diciamolo subito, è fatta bene e improbabile come tutti i prodotti americani: prende gli episodi del libro e li sviluppa, li stira all’infinito, li spettacolarizza, forse li banalizza. Però riesce anche a evocarne l’atmosfera di minaccia incombente; la tensione claustrofobica di un mondo senza vie di fuga o quasi (nella serie ce ne sono un po’ troppe, purtroppo o per fortuna).
È successo anche che in questi giorni – il 22 settembre – sia morto Fredric Jameson, un teorico comparativista di scuola post-marxista e origini tedesche. Le teorie di Jameson e il suo brillante buonsenso sono il mio porto sicuro; Postmodernismo: Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (edito da Fazi) la mia bibbia. Jameson è colui che per primo ha stanato e descritto la postmodernità, e ha anche capito che avremmo sempre mantenuto una struttura moderna, se non addirittura premoderna, al di sotto dell’infrastruttura postmoderna. Ma è soprattutto, almeno per me, colui che ha parlato dell’“allegoria nella Letteratura del Terzo Mondo”, sostenendo che nei paesi del “Terzo Mondo” ogni testo, film compresi, è allegorico perché ogni testo ha una valenza politica, collettiva e sociale. Questo lo scriveva nei primi anni Ottanta, quando aveva ancora senso parlare di “Terzo Mondo” – che oggi chiamiamo “Sud Globale”. Oggi abbiamo anche capito che in realtà arte e letteratura sono allegoriche ovunque, perché ovunque (e sempre) l’arte ha un significato politico e sociale.
L’allegoria è una figura retorica affascinante: usata già nell’antica Grecia, ha raggiunto la massima diffusione durante Medioevo, per rappresentare in modo concreto un potere astratto come quello divino. L’allegoria è stata usata anche dai “moderni” per aggirare la censura (poiché veicola interpretazioni ambigue di certi fatti) o per esprimere in modo simbolico e immediato un concetto complesso e farlo diventare storia. In effetti, l’allegoria non è altro che la narrazione di una metafora, o una metafora in forma narrata. In ogni caso ha sempre a che fare con un’ideologia, per contiguità o opposizione. E l’ideologia, dice Louis Althusser (altro illustre post-marxista), ci avvolge come l’acqua avvolge i pesci di un acquario.
Qual è l’ideologia veicolata, evocata e combattuta nel Racconto dell’ancella? Qualunque essa sia, è più simile di quanto si vorrebbe ammettere a quella promossa dall’Italia parafascista nell’anno domini 2024. Perché è questo il punto: l’erosione dei diritti viene tollerata finché riguarda altri, e nelle società maschiliste come quella italiana (per non parlare di quella post-rurale del Mezzogiorno) si tollera con troppa facilità che i diritti delle donne – specie di quelle più vulnerabili – siano i primi a essere erosi. In fondo non è sempre stato così? L’Italia attuale, passata e – se tutto continua ad andare così – futura, ricorda più di quanto vorremmo ammettere la Gilead narrata da Atwood.
Le ancelle del Racconto sono donne fertili, vestite di rosso per segnalare questa loro condizione: il solo fatto di esserlo le rende desiderabili agli occhi dei maschi, vecchi o giovani che siano (si presume siano tutti fertili loro…), e detestabili a quelli delle altre donne. Le ancelle sono peccatrici a vario titolo: donne forti e istruite, non sposate o che hanno concepito figli al di fuori del matrimonio. Anche Meloni sarebbe stata un’ipotetica ancella: ma con il trasformismo prepotente che la contraddistingue, ha preferito vestire i panni del Commander (cioè dell’uomo di potere), e in virtù di un eccezionalismo che si estende anche alla sua cerchia, quello che vale per gli altri non vale per lei.
L’unico potere residuo delle ancelle, un potere non da poco, sta nella capacità di procreare: cosa che attira le ire e l’invidia delle donne infertili – le Mogli, le Zie e le Marte. Sono soprattutto le Mogli a patire la presenza delle ancelle, perché costrette a “cedere” i loro mariti in nome del nobile e superiore scopo della procreazione. Un concubinato di Stato. Un harem senza svaghi. In questo schema di categorie e ruoli assegnati, e nella rigida coreografia in cui sono tutti irreggimentati, ogni donna cerca di accaparrarsi quel po’ di potere residuo a disposizione e di usarlo come può, perché “quando il potere a disposizione è scarso, anche ottenerne poco è una prospettiva seducente”.
Si ha l’impressione di vedere diverse specie di felini muoversi nella stessa gabbia: a volte si curano con tenerezza, spesso si mordono e graffiano, qualche volta si uccidono. Gli uomini, guardiani e custodi, osservano da fuori e intervengono solo se strettamente necessario, alternando un paternalismo benevolo (quello tipico di chi ha il potere di nuocere in qualsiasi momento e senza limiti) a un sadismo di inaudita crudeltà.
Sembra un’allegoria esasperata ma Atwood ricorda che si tratta di cose accadute veramente, in luoghi e epoche diversi: è facile pensare subito a Iran, Cina e Russia, ma la ferocia antiabortista e l’ostilità aperta nei confronti della contraccezione riguardano molti paesi occidentali, compresi Stati Uniti (specie gli Stati conservatori) e Italia, che ospita quel sant’uomo del Papa, il quale quando non tuona contro la Nato ama scagliarsi contro quelle che lui chiama le scelte “anti-vita”.
In paesi apparentemente civili come Perù e Giappone sono state compiute sterilizzazioni di massa, in particolare ai danni di donne appartenenti a minoranze etniche. Fino agli anni Settanta, il Governo australiano ha rapito bambine aborigene affinché potessero, al momento giusto, essere date in spose a uomini bianchi e si estinguesse così la stirpe nativa, diluita fino al punto da scomparire (la cosiddetta “generazione rubata”). Persino la contraccezione può diventare abuso se imposta attraverso il controllo delle abitudini e dei cicli biologici di una donna: nella Cina post-maoista del controllo delle nascite, le “zie” di quartiere tenevano nota dei periodi fertili delle giovani mogli residenti, e distribuivano contraccettivi per limitare le gravidanze. Anche in Unione Sovietica e nella Romania del dittatore Ceaușescu la fertilità delle donne era controllata, ma la natalità incoraggiata con incentivi di Stato (vi ricorda qualcosa?). Le similitudini non si fermano qui: la genialità di Gilead – scrive Atwood nella postfazione fittizia – sta nella sintesi. La sintesi di tutto il peggio che l’umanità ha saputo infliggere a se stessa: campi di concentramento tedeschi e per tedeschi; purghe di intellettuali come quelle di Mao e Pol Pot; torture e autodafé; mutilazioni, infibulazioni, lapidazioni, impiccagioni. E ancora soppressione dei disabili; reclusione delle minoranze; persecuzioni degli omosessuali. Eugenetica fatta passare per volontà divina. Promiscuità negata e favorita. Persino echi di rituali dionisiaci come quelli sanguinosi descritti da Euripide ne Le Baccanti. Tutto e il contrario di tutto in nome di una legge superiore. La legge divina? No, la legge dell’uomo. Anzi del maschio.
Sempre a proposito di Terzo Mondo, c’è una città che pur trovandosi nella civilissima Europa non sfigurerebbe per disservizi, insalubrità e infima qualità di vita, dinanzi al peggiore centro urbano del Sud Globale: si chiama Reggilead ed è piena di ancelle, mogli, marte e zie. Le zie di Reggilead ricordano la vecchia intrigante di Bocca di Rosa, che dà buoni consigli non potendo più dare il cattivo esempio.
A Reggilead le donne non facilmente inquadrabili perché single, senza figli e erudite, sono viste con sospetto e trattate per questo come potenziali terroriste – una vera e propria minaccia all’ordine costituito. Lì, se sei una donna, le persone di una certa età prima ancora di chiedere il tuo nome ti chiedono chi è tuo padre. Se non “sei” di nessuno rappresenti un pericolo pubblico, un public hazard: perché si sa che la sola presenza di una donna libera minaccia il nucleo familiare e la coppia unita nel sacro vincolo del matrimonio. Non a caso nel Racconto, le ancelle vengono private del loro nome e chiamate con patronimici – Difred, Diglen, Diwarren (in Italia sarebbero Dimarco o Dipeppe). Nell’imitazione mal riuscita di società civile che è Reggilead, le donne mantengono il loro nome ma è sempre il cognome che conta. Certi ambienti sono preclusi a una donna, che senza “patrono” e patronimico giusti non ha accesso a una carriera, spesso anche solo a un lavoro dignitoso. Una donna indipendente che si muove in autonomia attira critiche e giudizi: la sua sola condizione è un invito a definirla, controllarla, oggettificarla in qualche modo. E guai alla donna che mostra la propria intelligenza, prende l’iniziativa o tiene testa all’uomo: questo la condannerà all’umiliazione pubblica o privata, o pubblica e privata.
A Reggilead sono tante le complici, o se preferite le utili idiote, del regime maschilista e patriarcale che tiene le donne prigioniere di lucchetti invisibili. E qui torna la magnifica allegoria di Atwood: le catene non devono essere reali e materiali per fare male; le ferite più pericolose sono quelle che non si vedono; la schiavitù più insidiosa quella che imponiamo a noi stessi, per paura o quieto vivere. Così molte finiscono per convincersi che sia giusto e naturale rinunciare ai propri diritti, aspirazioni o al proprio tempo libero in nome del benessere di chi, il più delle volte, neanche si rende conto di questo sacrificio, e di sicuro non lo apprezza. Perché viene dato per scontato. Perché si è sempre fatto così.
Alcune donne sono grate ai loro mariti/compagni perché permettono loro di uscire da sole, di coltivare hobby, di avere un animale. Dicono “È buono, mi dà il permesso di fare questo o quello”. Proprio come un comandante del Racconto, o un padrone nelle piantagioni di cotone dell’America schiavista, l’uomo esercita la sua benevolenza con relativa facilità. Il più delle volte non ha bisogno di diventare violento e ricordare chi è che comanda. Ma quando lo fa è meglio nascondersi, perché un uomo contrariato può essere imprevedibile e pericoloso. Vale per mariti e compagni, ma anche per padri e fratelli. La donna è puntualmente infantilizzata, sminuita, ridicolizzata, manipolata e derisa; è a malapena tollerata, come lo sono le sue “intemperanze”; ogni scelta passa al vaglio dell’uomo ed è sottoposta al suo benestare. Pensateci, la prossima volta che vedrete un padre accompagnare la sposa all’altare, ovvero consegnare la merce al suo nuovo proprietario, previa contrattazione.
Milioni di uomini in tutto il mondo pensano che le donne non abbiano la capacità di lavorare come loro, forse perché troppo emotive, instabili, sensibili: ai loro occhi, innegabili qualità diventano difetti. Questi uomini piccoli e insicuri, quelli che prevaricano e giocano alla guerra, si sentono minacciati da un capo donna, da una collega più brava di loro o semplicemente da una donna che non tace. Perché diciamocelo, a molti (troppi) uomini piace vincere facile. Molti non hanno il coraggio di dire quello che pensano, di esplicitare tutto l’astio per chi osa rivendicare la propria libertà e non accetta di sottostare alla tacita autorità maschile; ma date loro una possibilità e vedrete di cosa saranno capaci…
Un passaggio che la serie descrive bene è il cambiamento improvviso nel modo in cui le donne vengono trattate dagli uomini dopo l’instaurazione di Gilead: si passa da una cortesia di facciata e una sopportazione a tratti malcelata, all’aperto disprezzo che si traduce in violenza verbale e fisica. Anche Reggilead è piena di uomini, giovani e meno giovani, che non perdono occasione di manifestare il loro odio per le donne. Lo fanno liberamente, senza pudore (non ne hanno, anche se forse sono pieni di vergogna per se stessi) proprio come nel romanzo, perché sanno che la società è dalla loro parte, sanno di avere il sostegno dei più.
Tutti gli uomini sono così? Certo che no, ma lo è chiunque abbia potere, e gli uomini di Gilead e Reggilead hanno avuto più potere (troppo), a lungo e immeritatamente. E come scriveva James Baldwin “le persone che hanno potere, molto raramente hanno morale”.
Le donne fanno rinunce e ingoiano offese; si sono abituate o sono state costrette a farlo, giorno dopo giorno, compromesso dopo compromesso. Il messaggio più devastante dell’allegoria di Atwood è proprio questo: ci si abitua a tutto, per sopravvivere. Ma sopravvivere non è vivere. E siccome vivere davvero è impegnativo, perché comporta scelte, fatica e responsabilità, molte volte si preferisce rimanere nella comfort zone della gabbia in cui si accetta di entrare o che ci si costruisce persino, mai per propria iniziativa e sempre a vantaggio di chi pensa (in nome del potere) che così sia meglio per tutti. Ma “meglio non significa mai meglio per tutti.”
Nel romanzo e nella serie le case sono belle e lugubri, vissute e al tempo stesso ridotte ad asettici contenitori, proprio come le case di bambola. L’uniformità estetica data dalle divise e dall’uso degli stessi colori per determinate categorie, rende esplicito ciò che nella nostra società è solo implicito, cioè che nei luoghi “piccoli” quali Gilead e Reggilead la gente ama omologarsi, per godere dell’ingannevole senso di protezione che deriva dall’appartenere a qualcuno o qualcosa.
Un’altra angosciante similitudine è il ricorso alla delazione che contraddistingue i due regimi. In entrambi, infatti, si può notare la presenza di delatori per vocazione e delatori per professione: gente che dalla delazione trae vantaggi più o meno grandi e persino il proprio sostentamento, in virtù del potere che si ricava dalle informazioni. A Gilead come a Reggilead le parole hanno sempre più di un significato e le vere intenzioni non sono mai esplicite. Tantomeno esplicitate. Un complimento spontaneo è interpretato come una presa in giro; una gentilezza fatta senza pensarci su è vista come un’azione interessata che presuppone qualche oscura intenzione. Perché quasi niente si fa in modo disinteressato; quasi nessuno lo è. Una differenza significativa però è che mentre a Gilead la cruciale economia dei favori è simmetrica (“ti faccio un favore, mi devi un favore”), a Reggilead non lo è mai e in cambio di un piccolo favore ci si aspetta un credito illimitato. D’altra parte il predatore non fa sconti, ed è nella sua natura predare quello che può, come può.
A Gilead come a Reggilead vige un patriarcato di forma e un matriarcato di sostanza: il che significa che sono le donne a mandare tutto avanti, anche se non viene loro riconosciuto alcun merito, se non uno puramente simbolico.
I residenti di Reggilead sono in maggioranza bigotti che oscillano tra i valori fascisti e quelli cristiani. Fascismo e Chiesa sono apparati pomposi e bizantini basati sull’ipocrisia dell’esteriorità, in cui quanto più potere si ha tanto più facilmente si può trasgredire. L’importante è che non si venga a sapere.
Nella serie TV l’ancella Offred, il cui vero nome è June, afferma che “Gilead rende davvero difficile essere brave persone”. Ecco un’altra cosa in comune con Reggilead: laddove c’è chi bracca e chi si sente braccato, serpeggiano rancore e paura, ma i ruoli possono facilmente invertirsi o confondersi.
È difficile lasciare Gilead senza aiuto; lo stesso vale per la controparte reale. Ma una volta abbandonata, quasi nessuno vuole farvi ritorno, a meno che non si abbiano validi motivi, come ad esempio gli affetti e la famiglia, che a Reggilead invece di essere ali sono pesanti catene.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica