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Pietà

di Claudio Cordova – Raramente, nella mia carriera di cronista giudiziario, la tristezza e lo squallore mi hanno pervaso come ieri, nelle lunghe, lunghissime, ore di attesa che hanno preceduto la pronuncia del dispositivo di sentenza sul “Caso Miramare”. Eppure ne ho seguiti di casi giudiziari. Con uomini potenti alla sbarra, lestofanti con le mani sporche di sangue, colletti bianchi con collegamenti altissimi in seno alla massoneria e ai servizi segreti, e persino qualche uomo onesto.

Ma la tante, tantissime (forse troppe, visto il caso bagattellare), ore che la Corte d’Appello di Reggio Calabria si è presa per confermare la condanna nei confronti del sindaco sospeso, Giuseppe Falcomatà, sono state l’occasione, per me che ormai guardo alle cose giudiziarie con sempre maggiore disincanto (e disgusto) e a quelle umane e antropologiche con maggiore interesse, di osservare, scrutare, ascoltare. Ecco la tristezza, ecco lo squallore.

Decine e decine tra consiglieri e assessori comunali, pseudointellettuali, professionisti nominati qua e là nelle società partecipate, soggetti che hanno sempre gravitato nel mondo della politica e che speravano, con una sentenza assolutoria, di rientrare in sella, magari con un rimpasto di Giunta. Persino Demetrio Naccari Carlizzi, a un certo punto, è sbucato fuori ad attendere la lettura del dispositivo. Tutti lì, anziché passare la serata in famiglia, con l’amante, in pizzeria o davanti a Cremonese-Milan, per poter dire “io c’ero” e, quindi, poter battere cassa, qualora le cose fossero andate bene. Ecco la tristezza, ecco lo squallore. Uno schieramento in forze di un gruppo che aveva varie sfumature di ipocrisia e che pensava, evidentemente, di uscire vincitore dallo storico palazzo di Piazza Castello. Non ti schieri in forze, con soggetti cui, chiaramente, del destino personale di Falcomatà interessava e interessa poco in termini di stima e amicizia, se pensi di incassare una sonora sconfitta. Ci speravano tutti, nell’assoluzione. In primis Falcomatà. Si era anche affidato al professorone Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere Penali nazionali per la discussione finale. Un colpo a effetto, come quando fai entrare il fuoriclasse per tirare il rigore decisivo. “Vado, lo faccio assolvere e torno” avrà detto ai colleghi romani. Così non è stato. Per questo, dopo la pronuncia della sentenza a un anno di reclusione, che fa ripartire la sospensione da sindaco, i volti erano funerei, le facce scure.

Giuseppe Falcomatà è stato condannato anche in Appello per l’affidamento diretto dell’ex hotel Miramare all’amico e compagno di tante serate danzanti, Paolo Zagarella, imprenditore ed eterno Peter Pan, che ancora è possibile notare qua e là nei locali più alla moda della città. Ma, come spesso accade, la gravità del dato politico (e, di conseguenza, morale) supera di gran lunga quella dell’aspetto penale che, come detto, è quasi bagattellare. Pensare di poter affidare, senza un bando di evidenza pubblica, uno degli edifici più importanti della città – per pregio architettonico, per valenza storica, ma anche per influenza nell’immaginario collettivo – a un amico, perché Zagarella questo era ed è, tradisce non solo un acume non tra i più sviluppati, ma anche una arroganza politica e amministrativa che, dopo gli anni del “Modello Reggio”, la città sperava di aver messo alle spalle.

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Ma se con Giuseppe Scopelliti e con la sua nefasta e illecita stagione politica si riusciva a essere combattivi spietati, i sentimenti che maggiormente suscita Giuseppe Falcomatà e il suo codazzo sono la compassione, la pietà. Perché il suo imbarazzante percorso politico è stato possibile quasi esclusivamente per una serie di eventi contingenti. Il senso di spaesamento della città, dopo la vergogna dello scioglimento del Consiglio comunale per contiguità con la ‘ndrangheta e l’algido (e infruttuoso) periodo commissariale, e la scelta di fronteggiarlo, nel corso delle ultime elezioni comunali, con un soggetto oggettivamente inadeguato sotto tanti punti di vista come Nino Minicuci. Ma queste due vittorie, così diverse, anche nei numeri, non nascondono quella che è la vera natura di Falcomatà e dei suoi.

Spinto in politica dal ricordo di un professore morto troppo presto, Falcomatà ha dimostrato di non essere adeguato al ruolo di guida di una delle prime venti città d’Italia, di una città metropolitana. Lo stato in cui versa il territorio non è frutto dell’anno di interregno di Paolo Brunetti e Carmelo Versace, entrambi palesemente inadatti al ruolo, ma che hanno ereditato una situazione già pesantemente depressa, sotto tutti i punti di vista. Anche a causa del mai chiarito (sotto il profilo politico e giudiziario) caso del presunti brogli elettorali.

Gli anni della “Svolta” hanno avuto soprattutto la colpa di azzerare il dibattito cittadino, la voglia, anche di scontrarsi. Basta fare un giro sui social e vedere come anche la condanna in appello del sindaco sospeso (di per sé un evento importante per la città) sia stata accolta freddamente, quasi con disinteresse. Questo perché, ormai da tempo, la città non si riconosce più in un’Amministrazione che ha dimostrato non solo di non saper risolvere i più elementari problemi (carenza idrica, emergenza rifiuti, manutenzione cittadina), ma anche di avere una visione di città, sotto il profilo turistico e culturale. Colpa anche di un’opposizione che, forse consapevole dei propri, evidenti, limiti, anche culturali, ha sempre svolto un non ruolo in questi anni. Anche oggi quando dovrebbe chiedere a gran voce, anche con l’intervento di esponenti nazionali, un cambiamento di pagina per Reggio Calabria.

E, allora, come noi abbiamo compassione e pietà per lui e il suo codazzo, Falcomatà e i suoi dovrebbero avere pietà per Reggio Calabria. “La città ha resistito in quest’anno” ha detto, forse non letteralmente, Falcomatà nelle dichiarazioni post condanna. Ma il senso era questo. Ed era, evidentemente, in stato confusionale Falcomatà. E questo è comprensibile, viste le forti speranze nutrite. Perché invece basta solo fare un giro per le vie di Reggio Calabria per capire che la città non ha resistito affatto. Sotto il profilo economico, con sempre più saracinesche abbassate, anche in centro; sotto il profilo sociale, con le uniche aggregazioni umane degne di nota giornalistica sembrano essere ormai le liti (anche gravi) tra adolescenti; sotto il profilo culturale, con un evento come il cinquantennale dei Bronzi gestito (anche dalla Regione di centrodestra) come peggio non si poteva fare. E questo non solo per l’anno del duo Brunetti e Versace.

Di costoro si può avere pietà, perché, oggettivamente, sono tutti dei pesci fuor d’acqua nell’amministrazione di una città importante come dovrebbe essere Reggio Calabria, con potenzialità inespresse, proprio a causa di quello squallore di cui sopra. Pietà. A patto che loro ce l’abbiano per la cittadinanza e si facciano da parte.

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