di Valeria Guarniera – La vedi arrivare col sorriso e ti travolge con l’entusiasmo e l’energia frenetica di chi non sta mai fermo. Bruna Mangiola – chi la conosce lo sa, chi non la conosce ci mette poco a capirlo – è una forza della natura. Responsabile Promozioni Umane Caritas della diocesi Reggio-Bova, la incontro mentre illustra a due giovani volontarie le varie attività: “Quello che facciamo è creare relazioni. Intercettiamo i bisogni della gente, accogliamo la disperazione di chi pensa di non farcela e asciughiamo le lacrime di chi è sopraffatto dal dolore”. Volontaria mossa dallo spirito di Carità, non fa differenza tra le diverse attività che svolge: “Che siano i migranti, le famiglie bisognose o i senza fissa dimora poco cambia. Davanti a me, in quel momento, c’è una persona. Non vedo altro”. Così – che sia all’Help Center, in un centro accoglienza, per strada o al Porto durante uno sbarco – Bruna porta avanti la sua missione, insieme al piccolo grande esercito di volontari che la segue: “Sono loro la mia forza”.
Racconta divertita il suo rapporto con le Istituzioni: “Mi hanno sgridato perché parlavo con il Prefetto senza chiamarlo ‘Eccellenza’. Ma io di Eccellenza ne conosco solo una, il nostro Signore”; e diventa seria al pensiero del disagio sociale in cui versa la città: “Manca una progettualità seria”. Scarpe consumate e occhi pieni di speranza: nelle sue parole la determinazione ad andare avanti. Nei suoi gesti l’esempio concreto della parola dignità.
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Studi, analisi, relazioni: quello che viene fuori è il ritratto di un Sud sempre più povero, in cui la Calabria – con il benestare di Istat, Unioncamere, Sole24 ore – si conferma la Regione più povera d’Italia, inghiottita dalla recessione. Dietro i numeri, le storie delle persone e le sfumature che le statistiche non riescono a raccontare: i Centri di Ascolto della Caritas intercettano quotidianamente le istanze dei più poveri e hanno – oltre i dati ufficiali – il polso della situazione. Raccontami la situazione di Reggio…
A Reggio la povertà è una realtà presente e ingombrante, che soffoca tante famiglie. Da noi viene tantissima gente a chiedere aiuto, e noi ci proviamo, nel nostro piccolo, ad aiutare tutti. Abbiamo a che fare tutti i giorni con la disperazione: padri di famiglia che non riescono a portare a casa un po’ di pane, madri stremate, figli che vorrebbero aiutare ma non trovano lavoro. Noi li ascoltiamo, diamo loro supporto, apriamo le porte e insieme cerchiamo delle soluzioni. La partecipazione alle mense è altissima – ce ne sono tante in città – e, contrariamente alle aspettative, sono tanti gli italiani.
Poi c’è la mensa itinerante per quelli che – provati dalla vergogna o per non far pesare la situazione ai propri cari – provano a mantenere una apparente normalità: povertà significa anche esclusione sociale
Sì. Non è facile dire ai propri bambini che rientrano da scuola che non c’erano i soldi per fare la spesa. Allora qualcuno chiede aiuto, volendo però restare in disparte. Andiamo a cercare e a sfamare – autofinanziandoci – quelli che preferiscono non mostrarsi: famiglie che ci aspettano in un determinato punto per non farsi vedere dai figli e dai vicini. Il metodo è semplice: scrivo una mail con i menu della settimana, indicando cosa c’è e cosa manca, e la invio ad una lista di circa 180 persone. Una sorta di asta della carità in cui ciascuno può fare la propria parte. Perché è vero: non posso chiedere a nessuno di portare cento uova per fare una frittata. Ma un uovo ciascuno sì, quello non pesa a nessuno ed è fondamentale. E’ l’essere insieme, lavorare per la stessa causa, che fa la differenza. Poi c’è la Provvidenza che ci aiuta…
E i senza fissa dimora, gli invisibili della società: il pasto diventa lo strumento per avvicinarli e conoscere le necessità e i bisogni di queste persone
Le famiglie sono sempre le stesse, la gente per strada può cambiare, gente che o per scelta o per necessità fa questa vita. Sono i senza fissa dimora. Ce ne sono, anche se qualcuno pensa che non esistano. Io dico sempre ai ragazzi di aguzzare la vista e le orecchie, perché in giro non ci sono solo lustrini. Bisogna guardare le scarpe delle persone, lo diceva Baden Powell, per capire chi hai davanti. Spesso sono nascosti negli angoli. Noi offriamo il pasto. Però il pasto alla fine diventa lo strumento per avvicinarci e conoscere le necessità e i bisogni di queste persone. Sfamarli è importante, ma quello che interessa è l’incontro, per cercare di conoscere i loro problemi e nel nostro piccolo provare a risolverli, fargli capire che non sono soli. Spesso si ha la presunzione voler cambiare le persone secondo un’immagine che rispecchi la nostra, perché noi siamo – pensiamo di essere – lo specchio dell’immagine perfetta. E allora diciamo: “Si devono lavare, devono mangiare, non devono stare in quelle baracche o sotto un ponte”. Ed è vero: non dovrebbero. Ma è la pazienza la chiave di tutto, non bisogna avere pretese o mettere fretta. Assecondare i loro bisogni, senza presunzione presentarsi, chiedere se hanno bisogno di qualcosa, dare la disponibilità, tornare. Passeranno anche mesi, o anni addirittura, ma il risultato arriva. Ed è frutto del legame che si crea, con pazienza.
La strada, con le sue storie e persone…
La strada è bellissima, incontri tipologie diverse di persone. Giovanni, per esempio, è un signore che ho incontrato mentre rovistava tra i binari cercando qualcosa da mangiare. Mi sono avvicinata offrendogli il mio aiuto. Lui lavorava presso una fabbrica, poi l’hanno licenziato e non ce l’ha fatta più con le spese. Ha lasciato il suo paese ed è venuto a Reggio, forse con la speranza di andare oltre, perché ha parenti che stanno fuori. Però si è fermato qua e la sua casa è uno zainetto. Poi c’è la storia di Amedh, marocchino, abbiamo avuto la segnalazione da una signora che lo vedeva in condizioni pessime. Non riusciva a mangiare, stava male, era tutto tumefatto. Poi abbiamo scoperto che l’avevano picchiato. Con fatica lo abbiamo convinto a muoversi di là. Sarebbe morto. E poi c’era Lena, la signora del porto con i cani. Inizialmente non ci apriva neanche la porta e le lasciavamo il pasto dietro. Poi piano piano ha iniziato a fidarsi. Alla fine ci aspettava con i suoi cani fuori: l’avevamo conquistata. Quando è morta è stato un colpo per tutti e al suo funerale ci abbiamo pensato noi, a san Giorgio, con una bella messa cantata e tanti fiori.
Sportelli di ascolto a bassa soglia, cioè privi di filtro all’ingresso, situati all’interno e/o nelle zone limitrofe delle stazioni ferroviarie che orientano le persone in difficoltà verso i servizi sociali della città (centri di accoglienza, comunità terapeutiche, associazioni specializzate) per elaborare percorsi mirati di recupero e reinserimento sociale. Sono gli Help Center, punto di riferimento per il contrasto al disagio sociale e risposta concreta alla solitudine della persona. Quello che gestite porta proprio il nome di Lena
“Casa di Lena”, sì. E casa di tutti. E’ il più piccolo d’Italia, però lì dentro batte un cuore fortissimo, portato avanti da volontari autentici. Dedicare il nostro tempo – anche quello che non abbiamo – per aiutare chi ha bisogno è quello che vogliamo fare. Ci sono i senza fissa dimora, le famiglie e i migranti che arrivano qua in cerca di notizie e di un po’ di ristoro. Noi apriamo le porte a chi ha bisogno. Un’indicazione, un caffè, la possibilità di ricaricare il telefono o di chiedere informazioni di qualunque genere. Noi ci siamo. E la città questo lo sa. Creare la relazione è quello che facciamo. In tutti gli ambiti: alla mensa di strada, nell’help center, durante e dopo gli sbarchi quando accogliamo i migranti.
Con il coordinamento migranti pratichi l’accoglienza: “Non ci sostituiamo a nessuno, puntiamo a dare sollievo e dignità a chi arriva – hai detto – un supporto morale, immediato e totalmente gratuito ai migranti, a base di sorrisi e strette di mano, seguendo alla lettera il passo del Vangelo che dice ‘Ero straniero, mi avete accolto’. Unico caso in Italia dove un coordinamento composto da volontari siede al Tavolo della Prefettura
Pochi mesi dopo la nascita del Coordinamento siamo stati chiamati a far parte del tavolo di crisi della prefettura. Ed è l’unico esempio in tutta Italia dove semplici volontari siedono con le Istituzioni. Una sorta di patto operativo: le istituzioni ci chiamano nei momenti di difficoltà per chiedere il nostro contributo, al quale non ci sottraiamo mai, così come non abbiamo alcuna remora nel sottolineare le cose che funzionano e denunciare invece le situazioni negative che possono venirsi a creare.
Raccontami il dietro le quinte di uno sbarco
Appena c’è la notizia di uno sbarco parte la macchina organizzativa: io scrivo sul gruppo e iniziamo a coordinarci. Portiamo le nostre cose: succhi di frutta, merendine, scarpe, acqua. Sembrerà una banalità, ma è molto importante: innanzitutto rincuora la gente che arriva e poi ci consente – nel caso dei minori non accompagnati o degli adulti che si fermano – di cominciare a capire quali sono i loro problemi, se hanno dei familiari ed eventualmente partire con un ricongiungimento.
Il porto è un grande teatro: ci sono i primi attori, i secondi attori, le comparse… noi siamo quelli che fanno le pulizie. Siamo gli ultimi, e per questo conosciamo molto bene quello che succede.
I volontari sono eccezionali, non guardano mai l’orologio. E non fanno caso a che giorno è: Natale, Pasqua, Ferragosto. Se c’è uno sbarco loro sono lì pronti a donare il loro tempo. Siamo mossi dallo spirito di carità, pilastro che tiene saldo questo Coordinamento. Ci ispiriamo alla Parabola del buon samaritano: prendersi cura, tornare. Farsi carico: “Va e fa anche tu lo stesso”.
Rispetto a periodi frenetici, con più sbarchi nell’arco di una settimana e ritmi che tu stessa hai definito disumani, la situazione sembra aver subito una battuta d’arresto
Ora c’è un disegno strano, non ne stanno arrivando. Non riusciamo a capire però sappiamo cosa sta succedendo: si stanno portando valanghe di soldi in Libia per tamponare quella che loro chiamano “un’emorragia”. Loro non stanno partendo – e le navi delle ONG che sono lì non si possono muovere perché c’è il divieto di oltrepassare “la linea rossa”, non c’è nessuna nave di Frontex in questo momento la a pattugliare. Non partono. Però muoiono. Là la gente muore e noi non lo sappiamo. La gente continua a essere torturata. E’ un genocidio silente di cui nessuno parla. Tutti sono contenti che “non ne stanno arrivando”. Ma è un dramma umano di proporzioni enormi. Davanti agli occhi di Dio siamo tutti uguali, tutti fratelli. Ma loro soffrono. E soffrono davvero. Chi parla, chi si alleggerisce la coscienza con frasi del tipo “non tutti scappano dalla guerra” dovrebbe venire al porto per capire la situazione. Basta con i convegni, le tavole rotonde. Le chiacchiere, non servono più: bisogna agire.
Qual è il peggior luogo comune quando si parla di accoglienza? Quello più dannoso…
Puzzano. Non sento dire altro: “Sono sporchi e puzzano”. Ma quello è il profumo della sofferenza: è un profumo diverso dal nostro. E quando c’è quel profumo – che non riguarda solo i migranti, ma in generale chi soffre – è lì che noi dobbiamo intervenire. Che ci portano le malattie, altra stupidaggine: nessuno di noi ha mai avuto problemi. E poi “ci rubano il lavoro”. Ma la gente non vede che quando arrivano loro c’è un intero sistema che si mette in movimento? Mettere in piedi un centro di accoglienza significa aiutare loro e creare opportunità di lavoro per il territorio. A loro vanno i servizi, ma i soldi aiutano il territorio.
Situazioni come quella del Cara di Isola Capo Rizzuto però rischiano di far perdere la fiducia: una “macchina dell’accoglienza” che si è rivelata essere altro, un sistema totalmente in mano ai clan e agli interessi, cui anche figure legate alla Chiesa e alle istituzioni davano il loro supporto
Il problema sono i grandi numeri e gli interessi che ci sono dietro. I numeri grandi sono pericolosi perché a quel punto vedi solo una massa di persone, esci dalla dimensione personale, e non ti interessa più prenderti cura dell’altro: porti avanti un sistema che fa soldi: inizi a risparmiare dove puoi, subentra uno spirito imprenditoriale che non ci appartiene. Per questo noi lavoriamo solo su piccoli numeri, persone che accogliamo e a cui diamo una casa. Li aiutiamo a integrarsi, ad imparare l’italiano, li facciamo inserire nel tessuto sociale della città. Li conosciamo bene, non sono numeri, ma persone di cui noi sappiamo tutto: cosa gli piace e cosa no, Che carattere hanno e quali sofferenze hanno vissuto prima di arrivare qui. E’ la relazione – sarò ripetitiva, lo so – la chiave di tutto. E quella si costruisce con pazienza, alimentando rapporti personali che nei centri che “accolgono” i grandi numeri non è proprio possibile. Non voglio dire che noi siamo l’eccellenza. Ma la nostra missione la portiamo avanti con coscienza.
C’è stata una vicenda particolare in città ultimamente: quella legata ad un Consiglio Comunale aperto proprio sul tema dei migranti. Luogo prescelto dall’amministrazione comunale il Porto di Reggio Calabria. Poi, poche ore prima, la decisione di non farlo…
Ci era stata comunicata l’intenzione di fare un Consiglio Comunale aperto sulla situazione dei migranti. Noi abbiamo subito detto no, che non avremmo partecipato. Il rischio che una situazione delicata – che ci vede costantemente impegnati e per cui spendiamo tutte le energie possibili – venisse strumentalizzata da chi non fa altro che buttare fango, era troppo alto. In più noi col sindaco abbiamo sempre parlato, lui sa cosa abbiamo da dire, non c’era bisogno di questo confronto. In quei giorni c’era stato uno sbarco e al porto – che era in una condizione pietosa – c’erano 140 minori non accompagnati che dormivano nelle tende. Insomma, non era proprio il caso di organizzare una simile iniziatica in quel momento.
Un Consiglio Comunale aperto proprio dove l’incuria e l’assenza del Comune era più evidente… non sapevano della situazione?
Diciamo che non avevano la contezza della situazione che c’era al porto. Fatto sta che poi, per motivi che loro hanno definito “di ordine pubblico” il Consiglio è stato annullato. Ma come avremmo potuto partecipare? Noi, che eravamo tutti i giorni lì a sfamare questi ragazzi, in teoria affidati ai servizi sociali, cosa avremmo dovuto dire a loro – interlocutori evidentemente a volte un po’ distratti – e ad altri, pronti ad una battaglia al grido di “prima gli italiani”.
Situazioni, queste, che fanno perdere la fiducia. Cosa rimproveri all’attuale Amministrazione?
La mancanza di progettualità. Tante volte abbiamo dato dei suggerimenti, ovviamente da persone non esperte di piani strategici, finanziamenti, agibilità delle strutture ecc. e c’erano sempre ostacoli insormontabili. Ora, non sta a noi trovare le soluzioni, oltre le idee non possiamo andare. La mancanza di soldi è un alibi, è la progettualità che manca. I flussi migratori hanno sempre portato ricchezza. E non accetto le scuse di alcuni sindaci che dicono che tutto il peso dei migranti grava su di loro. Basterebbe sensibilizzare i piccoli centri, organizzare degli incontri per far capire che non stiamo parlando del mostro nero che mangia i bambini. Che se ogni paese prendesse dieci ragazzi, avremmo risolto il problema. Perché con quei dieci ragazzi – che aiuti e riporti al mondo – si muove l’economia. L’importanza dell’accoglienza, dal punto di vista umano e di crescita del territorio, è il messaggio che deve passare. E’ l’ignoranza il grande male: la gente non conosce. C’è la paura del diverso e l’informazione spesso è deviante. Per questo servono gli incontri mirati. Bisogna far capire che queste persone sono una risorsa e che tutta questa preoccupazione è infondata.
C’è la sensazione, diffusa, che la macchina del volontariato sostituisca le istituzioni. Non può e non dovrebbe essere così. Ma nei fatti, quando parliamo di disagio sociale, la percezione è questa…
Noi vorremmo collaborare con le Istituzioni, molto spesso siamo nell’impossibilità di farlo. Facciamo quello che possiamo, ma le grande rispose le devono dare le istituzioni. La bolletta della luce, il gas, l’affitto, le medicine: c’è gente che non riesce a stare dietro a queste cose. E questi sono i bisogni primari che le Istituzioni devono tamponare. Noi ci siamo, certo. La nostra è una missione. Ma sarebbe bello se ognuno facesse il proprio dovere.
Due le dimensioni: quella personale, del cittadino; e quella istituzionale, di chi governa e amministra la città. Dimensioni che devono camminare insieme
Reggio è una città generosa. Lo ha dimostrato in varie occasioni: ogni volta che c’è bisogno vedo una mobilitazione sorprendente, che mi fa sperare. Qualsiasi cosa io chieda per le varie attività, la ricevo. C’è un patto basato sulla fiducia, tra noi e la città: la gente vede che cosa facciamo con i soldi o con i beni materiali o alimentari che ci da. Abbiamo una credibilità conquistata con la presenza, costante, e con l’amore verso chi soffre, per noi sempre al primo posto. La credibilità passa attraverso la testimonianza. Tante persone sono diventate volontarie così: perché hanno visto i loro soldi trasformarsi in atto d’amore. Sono rimasta qui quasi per caso, i piani erano altri… ma è qui che nei momenti di sconforto trovo la motivazione per andare avanti. C’è una parte di città – una grande parte – che dimostra in ogni occasione di esserci per l’altro. Reggio è anche questo. E’ vero: queste due dimensioni dovrebbero sempre camminare insieme, capire che il disagio sociale riguarda tutti e che l’amore – la gioia di condividere, l’essere insieme per un bene che sia comune – è l’unica cosa che ci potrà salvare.