di Matteo Valenti Piovasco
“Suona fanfara sgangherata per gli esiliati dal mondo delle favole, cantate ciurma di ribelli che al suono delle vostre voci impaurita scappa la tarantola della disperazione”
(A. Mannarino)
RC 31/12/2025 ore 23:54
Per le strade di Reggio Calabria l’asfalto trattiene l’eco del mare e i lampioni del corso tremolano come se avessero freddo.
In quest’atmosfera sospesa, poco prima della mezzanotte, cammina l’uomo… avrà quarant’anni scarsi o abbondanti, impossibile dirlo: certi uomini sembrano non avere età. Cammina storto, con le spalle incurvate in avanti, le braccia un po’ rigide, come se stesse portando addosso un cappotto di legno.
Sembra non stia facendo niente di male. Non ruba portafogli, non scardina porte, non chiede neanche l’elemosina, eppure, dove passa lui qualcosa si svuota.
Sfiora un bar ancora aperto: due ragazzi parlano di un concorso, di un contratto, di un “forse”. L’uomo allunga una mano ossuta e zac, il forse diventa un mai e il lavoro ai giovani finisce in tasca sua, piegato male, come un biglietto dell’autobus con la linguetta così sgualcita che non si può più infilare nella macchinetta.
Più avanti incrocia una coppia che rientra a casa, hanno le chiavi già in mano e c’è un silenzio stanco di fatica e lavoro. L’uomo soffia come quando si spengono le candeline, e la serenità degli adulti si appanna, si riempie di conti, di rinvii, di “ne parliamo dopo”, di favori da fare in cambio di meritocrazia.
C’è un balcone con le lucine intermittenti e un bambino che non vuole dormire, sta aspettando i botti. L’uomo ci passa sotto, allunga un dito e gli ruba la spensieratezza come fosse un palloncino, così al bambino resta solo lo spago.
Davanti a un portone siede un vecchio con il vestito buono, quello delle feste, guarda lo Stretto come si guarda una cartolina. L’uomo gli passa accanto, gli tocca il ginocchio: la pace se ne va, sostituita da una memoria pesante, di quelle che fanno male alle ossa, fatta di colpe e di angosce.
Quest’uomo non è un uomo, in fondo. È un’abitudine antica, una malattia cronica che cambia nome a seconda del luogo, ma non andatura. È come l’anno vecchio che non vuole andarsene.
È la ’ndrangheta quando smette di essere notizia e torna ad essere muffa.
Poi arriva la mezzanotte.
Il primo fuoco d’artificio esplode sopra Reggio come una rivelazione. Una luce enorme, bianca, sembra immensa. L’uomo si ferma. Per la prima volta alza la testa e resta abbagliato, gli occhi gli si stringono come a chi ha vissuto troppo a lungo al buio.
In quello stesso istante, da una finestra al terzo piano, una vecchia signora compie il gesto rituale. Non ci pensa troppo: a Capodanno si fa così. Lancia giù una sedia rotta, una sveglia che segna le 17:58, un piatto ormai sbeccato dai ricordi di una vita passata. La traiettoria è perfetta e quell’uomo si prende la tradizione dritta in testa.
Si guarda intorno, smarrito. Qualcosa non va, la città non sta più al suo posto.
Un altro fuoco sale, fischia, esplode. Uno più dispettoso degli altri gli scoppia dietro, proprio sul deretano. L’uomo emette un verso indecifrabile, a metà tra un lamento e un fischio da spiritello offeso e scappa.
Corre per le strade di Reggio con movimenti sconnessi, saltella, inciampa, sembra fatto di gomma. I fuochi lo inseguono: bam, pum, sdish. Lo illuminano a giorno, lo svelano, lo rendono ridicolo. Non è più un’ombra paurosa, è una macchietta che fugge.
Dai balconi escono i giovani, prima con cautela, poi ridendo. Dai portoni ne escono altri, con le giacche buttate addosso e le scarpe ancora slacciate. Qualcuno urla, qualcuno batte le mani, qualcuno corre senza sapere bene perché, ma sapendo benissimo contro chi.
Quell’uomo corre, scappa, si rimpicciolisce. Diventa come l’anno vecchio che non ha trovato casa. Scappa verso il buio, oltre i confini invisibili della città, inseguito dal rumore, dalla luce, da una Reggio che decide di non avere paura.
Quando l’ultimo botto si spegne, resta l’odore di polvere da sparo e di mare. Le strade tornano a respirare.
E il futuro, per una volta non emigra al nord, resta.
