In Italia, più del 90% dei lavoratori è coperto dalla contrattazione nazionale, quindi, un eventuale salario minimo si applicherebbe ad una quota residua di lavoratori. Di conseguenza, se si propendesse per inserire comunque il salario minimo per legge, non solo verrebbe fortemente impoverito e delegittimato il ruolo della contrattazione collettiva, che da sempre rappresenta un punto di forza delle relazioni di lavoro in Italia, ma diventerebbe prioritario riflettere su chi debba sostenere il peso degli incrementi che la misura determinerebbe per le aziende. Secondo le simulazioni effettuate da Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, infatti, si rischia un aumento del costo del lavoro di 12 miliardi di euro, il 20% in più rispetto ai livelli attuali. L’“effetto boomerang” è, quindi, dietro l’angolo, con un conseguente rialzo dei prezzi per beni e servizi con cui si potrebbe vanificare l’intero impianto della riforma. Nello scenario delineato da Fondazione Studi sono 4 milioni i lavoratori sotto la soglia oraria di 9 euro lordi ai quali si dovrebbe applicare il “nuovo” salario minimo; infatti, ai 2,9 milioni individuati dall’Istat si dovrebbero aggiungere i comparti agricolo e domestico, dove le retribuzioni nette tendono ad essere sotto soglia per una quota ancora più significativa di lavoratori. E il costo del lavoro per le imprese, in assenza di un taglio del cuneo fiscale a loro carico, sarebbe di oltre 5,5 miliardi di euro. Ulteriori ricadute si avrebbero sull’adeguamento dei livelli di inquadramento dei dipendenti già sopra la soglia per il cosiddetto “effetto trascinamento”: se crescessero, in via prudenziale, di solo il 5%, il costo del lavoro sarebbe triplicato rispetto ai 4,3 miliardi stimati dall’Istat, toccando quota 12 miliardi di euro.
“Nessuno deve essere pagato pochi euro l’ora. È giusto, quindi, tutelare i lavoratori più deboli, ma senza generare ulteriori situazioni di squilibrio del quadro economico e delle relazioni industriali del Paese” afferma Rosario De Luca, Presidente di Fondazione Studi. I Contratti Collettivi esistenti nel nostro Paese offrono un’ampia platea di istituti contrattuali che fanno parte integrante della retribuzione annuale (rol, welfare, mensilità aggiuntive, permessi) e che negli altri Paesi non è detto che esistono. Quando si parla di salario minimo orario in sede comunitaria bisogna individuare gli standard nei minimi della contrattazione collettiva, che nel nostro Paese rappresenta un valore da rafforzare e tutelare, non certo da cancellare con una legge”.