di Alessia Tripodo – Molti reggini delle nuove generazioni ne conservano la traccia tra le vie della città, nei titoli di Istituti e premi ed eventi che non riportano alla luce la reale figura di un uomo, un politico, uno storico, un docente figlio di un periodo difficile da raccontare, così da tramandare: Italo Falcomatà. Trasmettere il racconto di una città, Reggio, e di uno Stato, invasi da corruzione, ignoranza, lotte politiche-fratricide e criminalità, risulta di non facile lavoro poiché, questo quadro a pensarci bene parla dell’oggi più di quanto vorremmo ammettere.
UN UOMO DI SINISTRA. La carriera politica di Italo Falcomatà inizia a piccoli passi, negli anni ’70, quando aderisce al PCI – Partito Comunista Italiano – che all’epoca era a guida di Luigi Longo. In realtà, Falcomatà si era da sempre interessato alla politica del territorio – sebbene in qualità di storico – pur rimanendo in uno spazio di riserbo. La vicinanza al PCI, però, porta a nuove elaborazioni; per cui l’analisi di Falcomatà si indirizza sempre più verso la depressione del Mezzogiorno post-guerra e verso il ruolo della classe media.
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TANGENTOPOLI E ‘NDRANGHETA, SPETTRI SEMPRE ATTUALI. Quando nel 1980 Italo Falcomatà ottenne per la prima volta un incarico al consiglio comunale reggino, la città stava attraversando uno dei periodi peggiori dopo il terremoto del 1908. Questa volta, però, il nemico si aggirava all’interno ed elargiva bagni di sangue tra le strade. Gli anni ’70, infatti, si chiudevano con la prima guerra di ‘ndrangheta che porterà all’uccisione di tutti gli ex boss reggini con la costituzione di una rinnovata classe criminale capitanata, a Reggio Calabria, dai De Stefano.
Ma, come si dice, il sangue vuole altro sangue e negli anni ’80 infuria una nuova rivalità che si placherà – apparentemente – solo nel 1991. Il copione rimane invariato: una cronaca cittadina investita da cadaveri che non trovavano sensatezza nella morte o nella vita. E le macchiette che entrano in scena – che al termine della seconda guerra tra le ‘ndrine reggine hanno i nomi di Libri e Tegano – si mescolano in un quadro sempre più ampio, nazionale e internazionale. Perché gli anni ’80 sono anche gli anni in cui il traffico di droga (cocaina ed eroina) prende il sopravvento e soprattutto sono gli anni di un altro malaffare, che a volte risulta legato con quello mafioso, altre volte no. Nel 1981 spunta fuori il sodalizio tra la loggia massonica soprannominata P2 – Propaganda 2 – e alti-altissimi vertici dello Stato. La loggia, il cui “Maestro venerabile” era Licio Gelli, venne incriminata di diversi reati nonché di partecipazione attiva a cruenti avvenimenti che segnarono la storia d’Italia. Lo stesso Gelli, secondo la sentenza della Procura di Bologna del 2020, risulta essere il mandante della strage di Bologna che il 2 agosto del 1980 distrusse 85 vite e ferì oltre 200 persone.
Perché è importante ricordare tutto questo ora? Per comprendere il contesto da cui Italo Falcomatà ripartì con un progetto modesto ma di grande impatto, riorganizzando quel quadro politico che allora doveva apparire più frammentato che mai. Inizia così il suo mandato da consigliere comunale, inizia un lavoro lento e incompiuto che manterrà saldi tre obiettivi: la lotta all’abusivismo edilizio, il risanamento del bilancio cittadino e il ripristino di una politica dal basso.
Ciò che però manca per racchiudere del tutto quella situazione è proprio l’evento che portò Falcomatà a diventare Sindaco di Reggio Calabria per la prima volta. Negli anni ’90 scoppiò il caso “Mani Pulite”, anche soprannominato Tangentopoli; caso che sorse su proposta dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, alla Procura di Milano. Tangentopoli, tuttavia, si scoprì ben presto una realtà fortemente presente in tutta la penisola. Soldi per favori politici, o meglio tangenti, “mazzette”, scambiate tra soggetti dell’imprenditoria italiana e figure in carico a tutti i colori di partito. Nessuno escluso, nessun luogo illeso da quelle corruzioni che logorarono il paese, compreso il comune reggino, portando alla crisi del consiglio comunale a seguito delle dimissioni di Giuseppe Reale, ex segretario generale della regione. Italo Falcomatà, durante il primo consiglio comunale dopo lo scandalo fu eletto Sindaco.
DA FALCOMATÁ A FALCOMATÁ. Sono questi i motivi per cui gli anni Falcomatà sono ricordati come la “Primavera di Reggio”, a partire da quel primo consiglio comunale del 28 novembre 1993 nel quale si riuscì a scongiurare lo scioglimento del comune; con una maggioranza spaccata e un contesto sociale ed economico che sembrava irreversibile. Italo Falcomatà dimostrò di essere un capace mediatore e soprattutto riuscì a ottenere fiducia dalla cittadinanza, confermandosi il preferito sia nelle elezioni del 1997 che nel 2001. Poi la scomparsa, l’11 dicembre del 2001, dopo cinque mesi di lotta contro una leucemia acuta e l’idea che via via cresceva di aver perso un uomo insostituibile, un sindaco “di tutti”, realmente amato. E sebbene le istituzioni tutte abbiano reso omaggio al defunto sindaco, la macchina burocratica pretendeva di ripartire. Così, nel 2002 si indicono nuove elezioni con la finale riuscita di Giuseppe Scopelliti che vinse con il 53,8% dei voti, superando il candidato del centrosinistra, nonché vicesindaco dell’amministrazione uscente, Demetrio Naccari Carlizzi.
“Movida” sarebbe la parola più adatta per descrivere gli anni di mandato di Peppe “dj” Scopelliti, sulla cui figura vengono mossi ancora profondi dubbi e un senso di “non del tutto chiarito”. Riassumendo, si potrebbe dire che dalla “Primavera” si passò a un’estate piena di passerelle, “notti bianche”, personaggi Mediaset che scoprivano la città e un debito – economico, politico e sociale – enorme, che già nutrito fagocitava l’intera città: era semplicemente il famoso “Modello Reggio”. Poi il 2012, l’anno in cui il Consiglio dei Ministri, con una decisione presa all’unanimità, dichiara lo scioglimento del comune per contiguità mafiosa, con una validità complessiva di 24 mesi e il necessario commissariamento.
Soltanto nel 2014 gli elettori poterono ritornare alle urne e con un boom di preferenze torna ad essere sindaco un Falcomatà, figlio questa volta. Giuseppe Falcomatà, che parla alle giovani generazioni ma con una retorica del passato, rassicurante, in un ricordo continuo del padre.
UN’ALTRA STORIA. Ciò che fin ora è stato scritto è vero per metà. Piuttosto è il ricordo che la comunità grossomodo si tramanda. È una memoria umana che, come spesso accade, cristallizza quegli aspetti maggiormente empatici, aspetti che esemplificati tracciano la figura di un uomo. Un uomo compianto, sia chiaro. Ma un uomo anche politico. Di una politica – di questa terra, di quel tempo – che non accetta favole e si dimostra cruda, a volte dolorosa.
Nel 2016 la Dda di Reggio Calabria inaugura una serie di inchieste che ricostruirebbero il sodalizio tra le massomafie reggine e la politica della stessa città. In realtà l’inchiesta tratterà della costituzione di una “cupola” tra massoneria deviata e ‘ndrangheta che governa, dirige, gioca con la politica, anche al di fuori di quella reggina. L’inchiesta prende il nome di “Mamma Santissima” e insieme ad altre inchieste – “Fata Morgana”, “Sistema Reggio”, “Reghion”, “Alchimia” – culminerà nel maxiprocesso “Gotha”.
La Dda scopre, inesorabilmente, che anche nel periodo della “Primavera” non sarebbero mancati i soliti giri di giostra nei quali si decide chi può sedere nei palazzi e chi no. In particolare, vengono tratteggiati alcune connessioni riguardanti Italo Falcomatà e Demetrio Naccari Carlizzi da una parte e Vincenzo Carriago dall’altra. Secondo quando scrivono i pm “Non v’è dubbio che Falcomatà e Naccari Carlizzi hanno beneficiato del sostegno mafioso di Carriago Vincenzo quantomeno in occasione delle consultazioni elettorali del 2001 e che in vista di quelle del 2002 Naccari Carlizzi aveva reiterato la richiesta di sostegno. L’imprenditore, invero, aveva opposto un netto rifiuto, invocando il fatto che gli accordi raggiunti la volta precedente non erano stati rispettati e aveva anche declinato l’offerta di un’ipotesi di lavoro ammontante a 100.000.000 di lire”.
Ma la storia, secondo i pm, sembrerebbe ancora più profonda: stando alle intercettazioni che danno corpo all’inchiesta, le frequentazioni con ambienti vicini alla ‘ndrangheta non erano nuove nel comune di Reggio. In una conversazione captata tra Candeloro Imbalzano e uomini della cosca Alampi si fa riferimento a uno “spostamento” di voti verso il candidato alle comunali 2002, Giuseppe Scopelliti; poiché, sempre stando alle intercettazioni, Scopelliti era considerato “un’occasione di finanziamenti”, un uomo presentabile con la linea politica del Governo che avrebbe, dunque, agevolato il flusso di denaro verso il comune.
E ancora, il boss Matteo Alampi vanta in più intercettazioni un’amicizia “con il professore (Falcomatà ndr)”, a cui si legava una promessa di voto che però aveva origini “personali”, conferma che arriva anche da Calderolo Imbalzano: “Nelle ultime politiche con Falcomatà l’accordo era votare lui […] Ora siamo liberi! Ora ci votiamo il nostro Sindaco… ci votiamo a Peppe che è il nostro Sindaco e gli amici che compongono la squadra che lo sostengono, poi se ci dà una mano… perché l’intento è…. è arrivato il Sindaco… è naturale che noi abbiamo l’idea che alla fine possiamo avere un ritorno, la nostra forza è che in grazia di Dio, il ritorno ce l’abbiamo ad alti livelli, come dite voi”.
Come queste due visioni d’uomo possano convivere non è certo, se non trovando posto nella complessità: certi, cioè, che è possibile proporre un racconto rinnovato, concreto, realistico senza pregiudicare la sofferenza che la famiglia e la comunità possa aver provato, possa tutt’ora provare. In fondo, non ci è possibile cambiare il passato.
Ciò che, invece, è avvenuto dopo la morte Italo Falcomatà è ormai chiaro: tra l’era – ormai – giudiziaria di Giuseppe Scopelliti e le vicissitudini di Falcomatà jr. (dalla condanna in primo grado per abuso d’ufficio nell’ambito del caso “Miramare”, ai brogli elettorali del 2020) c’è da chiedersi che tipo di futuro vorremmo progettare.
Infatti, l’erede Falcomatà non cede e ripropone quella rinascita, quella “Primavera” che avevamo sotto gli occhi senza saperlo. O più semplicemente, come nel Mito della Caverna di Platone, siamo prigionieri di un mondo che ci viene raccontato, fino a credere che le ombre proiettate sui muri siano reali.
Ecco cosa ne è stata della “Primavera di Reggio”: una promessa sospesa in una città dove manca proprio la prospettiva del “poi”, del futuro. A dircelo bene sono gli scheletri di palazzine mai terminate, ferme, appunto, da almeno vent’anni.