di Mariagrazia Costantino* – Ogni anno – cioè quell’arco temporale composto di dodici mesi che scandisce la nostra esistenza per gentile concessione di Gregorio XIII – è punteggiato da appuntamenti fissi: l’uscita del calendario Pirelli, le varie giornate di questo o quello (la giornata della marmotta, della bagna cauda, del gatto rosso, etc.), gli Oscar, l’assegnazione del Pallone d’oro e la temutissima pubblicazione dei dati sulla qualità della vita nelle città italiane. Temutissima soprattutto al Sud, perché raramente presenta sorprese positive, anzi il più delle volte conferma ciò che già si sa. Ormai è una tradizione a tutti gli effetti, una specie di appuntamento fisso del masochismo meridionale.
Quest’anno la ridente valle di lacrime che è Reggio Calabria, l’unico luogo dell’Occidente dove le buche stradali si rigenerano dopo ogni pioggia come funghi, è al penultimo posto della classifica (il 106º), meglio (o peggio, a seconda dei punti di vista) solo di Caltanissetta. È trascorsa una settimana dall’uscita della classifica e tutti saranno ormai passati oltre, rimuovendo convenientemente la cosa e l’imbarazzo che essa provoca. Ma dato il mio talento come salatrice di ferite, ritengo opportuno soffermarsi sul dato proprio adesso che sta scivolando nell’oblio e nella provvidenziale indifferenza.
Molti tra quelli che hanno appreso la notizia si saranno indignati, e avranno cercato (e trovato) le solite giustificazioni: che “il Nord ci vuole male”, “ci boicotta”, che “il Governo è corrotto” e “c’è una campagna diffamatoria”… hanno insomma reagito come il reggino medio che però poi stranamente vota Lega, perché come la qualità della vita, anche la coerenza non è di casa qui.
I criteri di valutazione sui quali si basa la classifica sono i seguenti: affari e lavoro, ambiente, reati e sicurezza, sicurezza sociale, istruzione e formazione, popolazione, sistema salute, turismo, reddito e ricchezza. Datemi la manina e scorriamoli insieme questi fattori che concorrono alla catastrofe annualmente annunciata.
Affari e lavoro: a Reggio Calabria non ci sono imprese né aziende; le poche presenti sono a conduzione familiare in tutti i sensi, perché impiegano solo familiari e amici (o quelli che diventano amici a forza di ricatti e intrallazzi). Gli enti pubblici sono piagati da inefficienza, incompetenza e corruzione (quelli che non vincono concorsi con ricorso annesso, “ereditano” il posto di lavoro a tutti gli effetti).
Ambiente: Reggio Calabria sulla carta ha un patrimonio naturale da far invidia alla Provenza o alla California; peccato che la vocazione italiana alla cementificazione unita a quella locale ai reati ambientali abbiano compromesso il territorio in modo irreparabile: incendi che ogni anno devastano migliaia di ettari, indisponibilità a creare aree verdi che non siano quattro aiuole e due palme (scenografico sfondo di aperitivi estivi), o quei prati spelacchiati immediatamente convertiti in toilette a cielo aperto per cani di padroni dal braccino corto e dal senso civico nullo (“è un concime naturale” dicono genuinamente convinti di essere dei benefattori, neanche fosse loro la cacca).
Quello della sicurezza (percepita) e dei reati è un punto che trovo affascinante, perché scatena il peggio del reggino standard. Che la percezione diffusa sia quella di una città tutto sommato sicura – poche rapine, pochi furti, poche aggressioni – dipende dal fatto che si conoscono tutti. Ciò non significa però che tutti si amino, e poiché i rapporti di potere esistono ovunque e sono ovunque sbilanciati, i soprusi abbondano. Tanti dicono indignati che la colpa per il degrado dei quartieri è degli “immigrati”: ma ammesso sia vero, per chi lavorano costoro? Chi o cosa (o l’assenza di cosa) permette loro di delinquere impunemente o quasi? Esiste poi un mondo sommerso di intimidazioni, minacce, truffe, piccoli e grandi abusi quotidiani che si preferisce ignorare o accettare come fosse “naturale”. Meglio convincersi che sia la norma piuttosto che combatterlo ed esporsi alle conseguenze: un gesto che in questo territorio ignavo, omertoso e compiacente ha l’effetto di isolare chi lo compie. D’altra parte è proprio chi ha coraggio che il vigliacco teme più di tutti, ed è più sempre più facile tagliare il dito che indica la luna, piuttosto che arrivare a questa.
La sicurezza sociale è un altro ambito misterioso, forse perché inesistente. Una società che non ammette di essere poco sicura non può nemmeno approntare misure adeguate di sicurezza e tutela. Tutela di chi? Dei fragili. E chi sono questi fragili? Quelli che non notiamo, perché non hanno voce e se anche l’avessero, noi non avremmo orecchie per ascoltarli. Esiste una rete di solidarietà affidata alle parrocchie e alla volontà di alcuni buoni samaritani, ma a parte queste sparute – sebbene importanti – eccezioni la città, intesa come municipalità, si disinteressa totalmente dei poveri e dei malati, abbandonati a se stessi e alla loro sorte. Senza contare che i pochi servizi di assistenza gratuita presenti sono intasati da furbacchioni che ne approfittano pur non avendone diritto, e pur potendosi ampiamente permettere quelli a pagamento: un’altra caratteristica très charmant di questa città è che qui piangono tutti miseria, tutti tranne quelli che nella miseria si trovano davvero, i quali tacciono per vergogna o per dignità – da sempre indirettamente proporzionale alla ricchezza.
Istruzione e formazione sono un altro di quegli ambiti in cui alla devastazione nazionale si somma quella territoriale. Tranne sparuti casi di istituti gestiti in modo virtuoso, scuole e licei sono diventati luoghi dove gli studenti non vanno per ricevere un’istruzione, ma per essere intrattenuti e possibilmente gratificati. Le nuove generazioni di genitori bamboccioni non riconoscono il ruolo del docente, declassato a babysitter, e non lo rispettano, perché ormai il docente è un “lavoratore povero”: in una società basata sull’apparenza e sulla proprietà, solo chi possiede beni e li ostenta è considerato degno di rispetto e considerazione. Solo il ricco ispira deferenza. Così, nella provincia reggina mafiosa e para-mafiosa, gli insegnanti sono spesso ostaggio di studenti ingestibili e genitori violenti, forti di una superbia che non teme scalfiture. L’università è un capitolo ancora più doloroso: quelle private sono ridotte a diplomifici (una laurea non si nega a nessuno), quella pubblica è piagata dai soliti scandali di nepotismo e favoritismi. Però sono “eccellenze”. Tutti a riempirsi la bocca di questa parola che, se applicata indiscriminatamente a tutto, ha l’effetto deleterio di appiattire e livellare ogni cosa verso il basso, comprese le poche, vere eccellenze rimaste. Molti lamentano la (cronica) carenza di offerta formativa, ma io credo sia un bene, o meglio, non credo che avere più facoltà farebbe la differenza, né riuscirebbe ad arginare l’emorragia di studenti che colpisce anche le grosse università siciliane.
La popolazione, a fronte delle carenze ormai strutturali, non può che rimpicciolire, invecchiare e deteriorarsi: chi rimane è un superstite, con tutte le implicazioni che un simile status comporta.
Il sistema salute è una tragicommedia, o una barzelletta triste come un nutrizionista obeso: mi è capitato di sentirmi dire “non è vero che la sanità a Reggio non funziona, mia madre è stata curata benissimo”; certo, devi solo avere la fortuna di ammalarti della patologia giusta, altrimenti peggio per te. Sempre al netto dei rari casi di professionisti seri trattati alla stregua di santi capaci di operare miracoli, la sanità sul territorio reggino è affidata a furbacchioni esosi e privi di empatia, che consigliano sempre le terapie più convenienti per loro e più dispendiose per i pazienti. Le strutture pubbliche sono fatiscenti, popolate da medici molto bravi o molto scarsi, senza quella sana via di mezzo che consente il mantenimento di uno standard adeguato. Certi reparti sono gironi infernali, in cui i capi infermieri dettano legge come rais di quartiere, terrorizzando pazienti e colleghi con minacce più o meno velate. Sostengo con forza e gratitudine la sanità pubblica, di cui faccio uso spesso e volentieri, e rispetto i tanti infermieri e medici che si adoperano per le nostre vite con sacrificio e dedizione, ma quelli che ho visto io non ispirano alcuna simpatia o solidarietà: perché non solo non sono simpatici o solidali, ma in molti casi sono piazzati lì senza reali competenze. Quello della sanità è un settore delicato che scatena forti reazioni emotive: abbiamo subito tutti, o quantomeno appreso di casi di malasanità, che ci hanno fatto disperare e indignare. Ma malasanità non è solo “la pinza nella panza”, come cantava Elio: sono i comportamenti che ho descritto, la mancanza di umanità – dote fondamentale eppure quanto mai rara nei medici – e la vera e propria crudeltà che caratterizza sin troppi operatori sanitari, i quali spesso maltrattano il malato come se avesse colpa per la sua condizione, come se la sua malattia fosse una punizione per qualche peccato commesso. Eppure, nonostante il numero cospicuo di ceffi che popolano le corsie d’ospedale, ritengo che nemmeno il comportamento più abietto o la svista più grossolana giustifichino le aggressioni al personale medico cui si assiste quotidianamente (c’è poi da dire che a essere aggrediti sono di solito i dottori, anzi le dottoresse, che fanno bene il loro lavoro).
Il turismo è un capitolo esilarante sul quale Claudio Cordova si è ampiamente e opportunamente espresso. Aggiungerò solo che il turismo sano e sostenibile non è una questione di numeri, e nemmeno di strutture e infrastrutture. Il turismo è vocazione all’accoglienza, cura e attenzione: penso che il territorio reggino abbia questa vocazione? Lascio a voi il piacere di indovinare la risposta.
L’ultimo punto, reddito e ricchezza, non ha bisogno di ulteriori commenti o prove: quanto appena elencato dimostra ampiamente come e perché il territorio di Reggio Calabria sia così povero e malconcio. Immagino già qualche volenteroso moralista ribattere che la ricchezza materiale non è tutto… costui sarà sicuramente uno dei fortunati che non si deve preoccupare di mettere insieme il pranzo con la cena e non resta sveglio la notte in preda al panico perché non sa come mantenere i figli (solo chi non conosce la povertà non dà il giusto valore al benessere).
Reggio Calabria e i suoi abitanti hanno smesso da tempo immemorabile di essere non solo nutriti e protetti, ma anche semplicemente governati e quindi educati: quello che accade sotto gli occhi di tutti è un osceno sfruttamento, un arraffare smanioso tutto ciò che può essere utile, compreso il silenzio della popolazione, che non si lamenta mai, nemmeno quando la privano del minimo indispensabile. La privano dell’acqua corrente, come succede da sempre. Solo che a differenza di Sicilia e Basilicata, della crisi idrica della Calabria non parla nessuno (guai a far fare brutta figura ai padroni). E a proposito, dietro il quadro desolante delineato, aleggia proprio il fantasma della mentalità padronale e di quella ossequente che ne deriva: è evidente che alle classi dirigenti (ufficiali e ufficiose) di questa città – e probabilmente di tutta la Regione – non piace che si parli dei problemi che la affliggono. Qualsiasi lamentela, per quanto legittima e fondata, è vista come pubblicità negativa; chi esercita il proprio diritto alla critica è un “hater”. E alla fine la solita malsana attitudine a negare, perché finché non si parla di una cosa, quella cosa non esiste.
Personalmente non temo di espormi alle critiche: innanzitutto perché quanto riportato riflette la realtà, ovvero ciò che accade dietro le chiacchiere autoassolutorie; in secondo luogo perché sono sicura che le persone serie mi daranno ragione, e a me interessa solo il loro parere. Di fatto la mia analisi ha una natura empirica, in quanto frutto di esperienze dirette o di conoscenti e amici. Prendetela dunque con le pinze ma non affrettatevi a liquidarla come frutto di una visione “disfattista” o “pessimista”. Se non vi è capitato niente di brutto in questa città forse siete stati molto fortunati; forse non conoscete il vero significato di “qualità” e come piccoli Candidi ritenete che questo sia il migliore dei mondi possibili, perché è l’unico che conoscete.
O forse la cosa brutta capitata ad altri siete proprio voi.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica