di Mariagrazia Costantino* – I fatti recenti e i luoghi interessati mi spingono a riconsiderare la Natività.
O meglio a vederla sotto un’altra luce. Insieme a Gesù, che era ebreo. Il primo ebreo (o forse solo il più illustre) perseguitato e condannato dai suoi stessi confratelli, sotto l’occhio – allora come adesso – sornione e indifferente dei Romani. No, non inizierò con il solito discorso. Piuttosto, dato il periodo, vorrei parlare del presepe, ovvero della capanna con annessa mangiatoia che ha ispirato la scena della natività.
Mi chiedo come fosse l’originale, se lezioso e improbabile come quelli che facciamo noi, o più sgarrupato come è naturale credere. Ma soprattutto, di quanti metri calpestabili fosse. Perché di questi tempi la metratura è tutto, soprattutto quando si può ampliare ad libitum. O quasi.
Fast forward di 2020 anni, un’amica inglese viene a trovarmi in Calabria, osserva le strutture rabberciate appollaiate sulle colline un po’ brulle della Ionica, le terrazze con lucernai e dependance improvvisate, casette e casupole sulle case. Un edificio che è un guscio vuoto bruciato. Indica una palazzina non finita, con i pilotini in bella vista, vetusta prima ancora di essere stata nuova. Mi chiede se è stata la mafia a farla esplodere.
Le rispondo di no. Che sono cose che la gente qui fa da secoli, per vari motivi, tutti assurdi. Ma forse ha ragione lei.
Chissà se la gente guarda alla propria casa come a un presepe, e se gli sembra bella, o quantomeno accettabile, sia fuori che dentro.
Reggio Calabria in fondo è proprio come un presepe. Uno un po’ bizzarro. Uno al contrario. Uno che visto da dentro sembra bellissimo e accogliente, ma che osservato da fuori restituisce un’impressione di caos e abbandono. Più che Betlemme, Beirut.
Anche nel presepe sui generis che è Reggio Calabria si trovano scorci cristallizzati nel tempo e dall’abitudine: cumuli di spazzatura al posto dei ciuffi di muschio; stagni delle papere nati spontaneamente da tubature fatiscenti e fognature intasate; sentieri un po’ accidentati occupati da greggi di pecorelle (ah no, sono strade scassate e invase da macchine parcheggiate in seconda fila).
I personaggi sono vari e quasi tutti pittoreschi: c’è il capannello di uomini dal sapor mediorientale e dall’occupazione non meglio precisata che confabula e lancia occhiate indiscrete alle passanti; signore impellicciate anche a 20°C, perché il presepe è quel luogo magico dove neve e palme convivono in nome della tradizione; numerosi “scemi del villaggio” trattati con un misto di bonarietà e paternalismo (perché se sei scemo tu non posso esserlo io); ragazzi e ragazze dal sorriso dolce e sfiduciato che guardano oltre le colline di cartapesta e sognano la fuga verso un mondo più vero e più giusto. C’è persino il mariuolo, ma non si nasconde ed è ben vestito, perché in questo presepe non esiste la criminalità freelance.
L’autore osserva compiaciuto la sua opera da fuori e dall’alto, mormorando come Luca Cupiello “Te piace ‘o presepe?”
Ma Gesù, Giuseppe e Maria dove sono? Chi sono?
Sono quella famiglia senegalese o maliana in fila dietro uno sportello, trattata con sufficienza, strapazzata da gente a sua volta maltrattata e incarognita, che per non sapere con chi prendersela, o forse solo per non potersela e volersela prendere con i veri responsabili del disagio, si rifà sui più deboli, sui poveri.
È ben strano questo presepe di persone devote ma senza compassione.
Forse è solo troppo simile all’originale.
Io, nel dubbio, faccio l’albero.
*Sinologa e docente universitaria – Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica