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All’Officina delle Arti va in scena “Grisaglia blu” di Nello Pepe: la ‘Medea partenopea’ Maria Pia Iannuzzi per la prima volta nella “sua” Cosenza

di Roberta Mazzuca – “Grisaglia blu ha il titolo di un colore, di una stoffa, in questo caso della giacca di un uomo”. È la giacca indossata da Antonietta Gavone, intrisa di follia e disperazione, ma anche di umanità e compassione, nello spettacolo “Grisaglia blu” che, nella meravigliosa quanto anch’essa folle e disperata cornice dell’Officina delle Arti di Cosenza, sancisce la ritrovata primavera della macchina teatrale del maestro Eduardo Tarsia: “Ringrazio solo ed esclusivamente tutti i soci per questa ripartenza, nessun’altro, nessuna istituzione” – ci tiene a precisare ai nostri microfoni.

“Antonietta Gavone vedova Cairano è una popolana della Napoli degli anni ‘50” – spiega l’attrice Maria Pia Iannuzzi. “Una donna coraggiosa, una moglie, rimasta poi vedova, che si trova a portare avanti una vita grama, piena di difficoltà. Non trova lavoro, ha cinque figli, e si ingarbuglia sempre in situazioni difficili che scopre essere dirette dalla camorra. Disperata, vedova, e abbandonata dal compagno, non riesce a ‘campare’ i propri figli, ‘costretta a provare finanche la via della prostituzione’”.

“Grisaglia Blu”, scritto da Sergio Velitti e con la regia di Nello Pepe, porta ‘follia, disperazione, o malvagità’, al centro del palcoscenico. Lo spettatore partecipa infatti al momento in cui Antonietta Gavone si ritrova di fronte al giudice, perché, disperata, folle, o forse solo malvagia, cerca di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica avvelenando i propri figli. “Lei voleva solo avvelenarli un pochino, non ucciderli. Non ha però considerato la conseguenza negativa di un atto del genere, perché sì, riescono a sopravvivere, ma il quinto, il cosiddetto ‘figlio della colpa’ avuto dal nuovo compagno, nonché suo cognato, muore” – spiega ancora Iannuzzi.

La scena è vuota, la protagonista ferma sulla sedia, con un fazzoletto in mano che quasi prende vita. Non esistono l’avvocato accusatore, quello della difesa, né il giudice. Lo sguardo che Antonietta rivolge al giudice è, in realtà, quello che rivolge al pubblico, a cui spetta la decisione finale di graziarla o condannarla. “L’occhio della macchina fotografica come metafora della posizione dello spettatore in sala. Con un piano ravvicinato, che non vuol dire necessariamente ‘ti capisco’, ma soprattutto ‘fammi capire’” – scrive il regista, che definisce la protagonista una “Medea partenopea”, uguale alla Medea classica perché uccide, o meglio tenta di uccidere, i suoi figli, partenopea perché non lo fa per gelosia, ma per dare loro una possibilità.
“Io interpreto una napoletana ferma e fredda, ed è un personaggio che mi piace molto per mille motivi: perché è napoletana, poi perché è una meridionale, una passionale, perché è una mamma, e perché è una donna. E poi ha sbagliato, e lo sbaglio è umano” – ci dice Iannuzzi. Uno sbaglio, dunque, ammonito e ammonitore. Uno sbaglio pronto ad essere giudicato, ma sbattuto in primo piano nella sua cruda verità come monito di una colpa che potrebbe essere di tutti, di una disperazione che potrebbe appartenere a tutti, di una follia che potrebbe pervadere tutti. “In fondo,” – dice l’attrice – “chi lo sa, magari al suo posto avremmo fatto lo stesso”.

‘A me, se mi condannate, non mi interessa, perché sono già stata condannata dalla vita’ – recita infatti la protagonista. ‘Volevo solo richiamare l’attenzione pubblica. Un poco di veleno, giusto perché li ricoverassero in ospedale, perché i giornali parlassero, perché chi sta in alto si interessasse. Lo so che poteva essere pericoloso, e che dovevo fa’? Mi mettevo paura di una prigione? Così stanno i fatti presidè, qua si sono dette tante belle cose, ma nessuno fino e mo’ si è preoccupato di sapere come e perché’.
Un atto unico, “nella cui prima parte è talmente surreale ciò che lei racconta da far sorridere, poi invece è un pugno nello stomaco” – spiega l’attrice.

Regia di qualità per uno spettacolo di qualità, in una cornice di qualità. Nello Pepe, regista RAI, con alle spalle programmi di punta come il David di Donatello, Question time al Festival di Sanremo con Maurizio Costanzo, Uno Mattina, e ancora gli speciali sull’attentato al Bataclan, il terremoto dell’Aquila, il crollo del Ponte Morandi, e alla regia di diverse fiction, regala alla città di Cosenza una luminosa perla teatrale, di cui Maria Pia Iannuzzi è appassionata interprete, condividendone insieme a lui e al maestro Tarsia che ha ospitato lo spettacolo, tutto l’amore, la follia, la disperazione, sentimenti propri del teatro stesso, e anche di chi, per inseguirlo, è costretto ad abbandonare la propria terra in cerca di opportunità.

Così come la stessa Maria Pia Iannuzzi, di nascita romana ma anche cosentina, come lei stessa afferma: “Io sono una romana calabrese, è come se avessi avuto due nascite. Sono nata a Roma, e sono nata pure qua, perché lì sono nata nell’anagrafe, qui nella crescita”. Genitori meridionali trasferitisi nella Capitale, dunque, ma tornati, come spesso accade, nella propria terra d’origine. “Così, a un certo punto, siamo tornati, ma siamo sempre rimasti legati a Roma. E ho vissuto con questo rammarico e questa malinconia di mia madre, che avrebbe voluto e potuto creare una famiglia a Roma e ‘darci un’opportunità’, diceva lei. Poi ho scoperto che mi piaceva l’arte, mi sono guardata intorno e la città mi stava stretta. Perché se è vero che è Cosenza è una città emancipata, per altre cose è molto provinciale, c’erano uno o due gruppi di teatro al massimo. Mi sono inserita in un gruppo amatoriale, però poi ho capito che per fare il salto dovevo andare via. E a un certo punto ho detto ‘basta, io me ne vado, e me ne torno a casa’”.

“Me ne torno a casa”. Le radici cosentine, la vita romana, l’eterno senso di mancanza di chi cerca altrove il proprio posto nel mondo, e lo trova, e lo trasforma nella propria nuova, ma non per questo secondaria, “casa”. L’eterno senso di smarrimento e appartenenza frammentata di chi ha il cuore diviso tra una terra che lo abita nel profondo, e una terra che egli abita nel profondo. È quel senso di rivalsa e di malinconia di chi, almeno una volta nella vita, ha dovuto fare i conti con una voce interiore carica di speranze e di futuro. È la semplice follia, che in alcuni casi diventa disperazione, in altri gioia, di aspiranti sognatori costretti, proprio come Antonietta Gavone fa con i suoi figli, a “uccidere” le proprie radici per radicarne di nuove altrove. Anche se, poi, quelle radici non moriranno mai veramente, magari solo un po’.

Di fatto, quelle di Maria Pia Iannuzzi, calabrese-romana con due nascite nel cuore, non sono mai morte, e per la prima volta recita nella sua Cosenza, tra gli incantevoli spazi dell’Officina delle Arti: “Ho scelto questo teatro perché è bellissimo, perché è un teatro-non teatro, perché è davvero un’occasione per la città per fruire e gustare uno spettacolo in una cornice particolarissima, che ti aspetteresti di trovare in città come Milano, Roma, Napoli, della Sicilia, piene di arte, e invece la trovi a Cosenza. È un posto che racconta un sacco di cose, un museo, grazie soprattutto alla lungimiranza e alla caparbietà di Eduardo, che ha tirato fuori da una centrale elettrica un teatro. È bello finanche il bagno, guarda, ti racconto questa. Sono andata in bagno, sono uscita, ho chiamato il regista e ho detto ‘ma tu l’hai visto il gabinetto?’. Certo, però qua la fatica e il sacrificio si sentono tutti. I miei spettacoli a Cosenza li farò sempre e solo da Eduardo”.

 

 

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