di Mariagrazia Costantino* – Il modo di rapportarsi al tempo è un indicatore della salute. Soprattutto di quella mentale.
Qualche giorno fa, alzando lo sguardo, ho notato che l’orologio di Palazzo San Giorgio non segna l’ora giusta. È avanti di qualche minuto. Ed è l’unica cosa che si può dire sia avanti a Reggio Calabria. Anche le campane delle chiese qui non suonano mai allo scattare dell’ora, ma sempre due minuti prima o dopo.
Non si può programmare niente in una città che non riesce a essere in orario: per poterlo fare bisogna avere un’idea di futuro. Bisogna essere disposti a investire, cioè privarsi nell’immediato di qualcosa di piccolo per poter costruire qualcosa di grande e migliore. Ma non è così che si ragiona qui: nella terra dei mangiatori di loto si vive alla giornata, perché dopo tutto «di doman non c’è certezza». Quando arrivano i soldi si gozzoviglia. Poi si tira la cinghia fino alla prossima abbuffata. Nel frattempo i cornicioni si sgretolano, i giovani diventano vecchi e i gatti muoiono nel sole, come cantava De Gregori.
Reggio Calabria non è riuscita a farsi assegnare il titolo di «Capitale italiana della Cultura 2027». Battuta da Pordenone e superata persino da Agrigento dove, nella fretta di rifare il manto stradale (e per la stessa malsana relazione con il tempo), sono stati asfaltati anche i tombini. Ma com’è possibile che un luogo che trasuda cultura, centro florido della Magna Grecia, culla dei Bronzi e della loro economia da bancarella fatta di statuine, cartoline, gelati e francobolli, sia stato derubato di un titolo che, stando a quanto annunciato per mesi, gli spettava di diritto? D’altronde tutto spetta di diritto qui: la precedenza nelle file, il parcheggio a portata di mano, l’ossequio servile. Il grande male che affigge gli abitanti di questa città – secondo solo allo straccionismo cronico dei tanti che non pagano le tasse comunali – è il cosiddetto “entitlement”, una via di mezzo tra arroganza e superbia. Che sono del resto caratteristiche dei bambini, le creature immature per definizione, prepotenti e narcisiste; forti della convinzione (nel loro caso giustificata) che tutto ruoti intorno a loro. Mai che qualcuno dei bambinoni adulti, bravissimi a battere i piedi e a fare le bizze quando non gli viene dato il giocattolo, si chieda come fare a meritarselo, cosa fare per ottenerlo e tenerselo stretto.
Me lo immagino il testo di presentazione del progetto: un’accozzaglia di banalità presumibilmente infarcita di errori d’ortografia; un unico grande luogo comune sulle bellezze del territorio di cui per altro è ridicolo (e penoso) farsi vanto, visto che non sono merito di nessuno se non del buon Dio (per chi ci crede). E la cultura? Non pervenuta. Come sempre. Ci si accontenta di quello che passa il convento senza nemmeno provare a proporre qualcosa di diverso, che possa svecchiare e sprovincializzare questo paesone ostaggio delle sagre.
Fateci caso. La cultura, a Reggio Calabria, è il pretesto per sponsorizzare attività commerciali. Chi promuove iniziative “culturali” lo fa quasi sempre per farsi pubblicità. O per fare pubblicità all’amico che poi ricambierà il favore. Perché sono tutti amici e compari qui. Finché non lo sono più. Finché non si stancano (anche i rapporti umani hanno una data di scadenza e vanno a male come lo yogurt). Le poche aziende in grado di finanziare progetti culturali seri non lo fanno perché non ne vedono l’utilità: non avendo bisogno di pubblicità, per loro ogni euro speso in cultura è un euro buttato. Cosa che la dice lunga sulla loro cultura. E sulla loro umanità.
In una città distopica, dove il malaffare si impone e si arricchisce con modalità post-capitalistiche e neofeudali, anche il singolo si vende come un brand. Basta spacciarsi per “personaggi”, inventarsi un marchio di fabbrica. Questa esaltazione dell’io affarista è l’esatto opposto della cultura, che è in primo luogo capacità di ascolto, volontà di fare squadra, mettersi al servizio di una comunità (la stessa che qui non esiste), farsi tramite di istanze valide e importanti. Essere amici di tutti i potenziali utenti indipendentemente dal rapporto che si ha con loro e dal tornaconto personale. Riuscire, appunto, ad andare oltre i personalismi e l’utile immediato, e ragionare in termini di crescita a lungo termine: l’unica reale e sostenibile. Tutte cose inaudite qui. Inconcepibili. Irrealizzabili. Ma è sin troppo facile prendersela con il sindaco: se questa città è fallita – culturalmente e non solo – è colpa di tutti.
La cultura a Reggio Calabria mi fa pensare al calcio in Cina. Anni fa un ragazzo cinese mi chiese come mai in Cina non ci fossero squadre forti e giocatori bravi, nonostante gli investimenti multimiliardari e le velleità da campioni del mondo. Persino il Presidente Xi di recente si è lamentato per le prestazioni scarse della nazionale cinese; mostrando peraltro una bella faccia tosta, visto che la colpa è anche un po’ sua. Io che di calcio ne capisco poco o niente, risposi che il motivo principale è la mancanza di libertà e autonomia di pensiero, che nel calcio sono fondamentali, perché sono quelle che portano all’iniziativa, allo “spunto” per il goal.
Come nel caso del calcio in Cina, anche qui mancano gli ingredienti fondamentali per una Cultura degna di tale nome: mancano la capacità di pianificare in modo efficace, la volontà di lavorare (insieme) e la disponibilità a fare sacrifici in nome del bene comune. Manca soprattutto l’ingrediente principe – la cultura, intesa come conoscenza. E chi queste doti le ha o le aveva, se n’è andato da tempo, sapendo che in una città così (sciagurata), da sempre e sempre più preda di predoni che rispettano solo la legge della giungla, il merito non solo non è riconosciuto, ma avversato come una colpa. In un tragicomico ribaltamento di valori, chi ha la sventura di essere competente verrà trattato come un appestato, perché la sua competenza smaschererà l’improvvisazione e l’incompetenza degli altri, ovvero quelli che gestiscono le risorse e redigono improbabili programmi.
Sono troppo drastica? Troppo negativa? Io credo di no. Troppo lucida forse. Sicuramente realista. Magari anche lievemente impietosa. Ma che pietà si può e si deve avere per un luogo che ha ridotto la cultura a pubblicità e a smaccata autopromozione degna delle peggiori televendite?
Un’altra amena caratteristica della Reggio da bere e dabbene, quella di avvocati, assicuratori, avvocati-assicuratori, architetti, medici a targhe (e fortune) alterne, professionisti del fumo negli occhi, fuffaguru, mecenati improvvisati e i loro piccoli fan – insomma tutti quelli che abusano dell’aggettivo “favoloso” – è il ricorso costante e ossessivo a quella che nel gergo psicanalitico spiccio si chiama “positività tossica”. La compulsione al sorriso a tutti i costi, a mostrarsi entusiasti (non si sa bene di cosa) e rilassati, quando invece dentro si urla e si è afflitti da un disagio enorme, ben visibile a chi sa andare oltre le apparenze. In fuga perenne dai cattivi pensieri con l’aiuto di sostanze reali e virtuali, si va in crisi al primo accenno di critica, anche indiretta. Terrorizzati da quella che Jung chiamava “ombra” – la negatività “sana” che tutti portiamo dentro. Forse in fondo fanno bene: mai mostrare il fianco al nemico (ma come? Non erano tutti amici?). Mai mostrarsi per quello che si è. Ma si sa poi chi si è davvero? Nel disperato tentativo di costruirsi un’identità accettabile, giorno dopo giorno si imbastisce un racconto avvincente e all’apparenza convincente. Uno che contraddica le “dicerie” di quei livorosi che dipingono la città come regno incontrastato delle ‘ndrine e di un sottobosco di attività più o meno lecite. Il racconto, si sa, è finzione per antonomasia, anche se in esso c’è sempre una parte di verità che va estrapolata e interpretata, ma mai alla lettera: pena la condanna a una vita di eterna illusione e allucinazione.
In una città che ha rimosso la verità e il desiderio sano di cose buone e autentiche – quello da cui deriva la vera creatività, la cultura non può che avvizzire, come un bambino invecchiato precocemente per assenza di nutrimento.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica