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Siamo davvero pronti per la democrazia?

Giorgio Gaberdi Claudio Cordova – Non consola affatto che l’affluenza sia stata bassa un po’ ovunque. Con picchi storici (in negativo) in città come Milano. Altrove, pur con gravi problemi (siamo pur sempre in Italia), non si parte da un livello così basso come quello calabrese. Un livello che, a ogni elezione, di qualsiasi rango sia, ci porta ad ascoltare appelli alla “rivoluzione civile (o gentile, come preferite), allo “scatto di reni” o ad altre espressioni più o meno retoriche.

Il dato che più deve inquietare dell’ultimo voto regionale non è il suo esito o gli esclusi da Palazzo Campanella. Sarà il tempo a dirci se Roberto Occhiuto sia in grado di amministrare una regionale complessa come la Calabria. Sarà il tempo a dirci se le liste del centrodestra erano davvero “pulite”, come la propaganda ha sostenuto in tutte queste settimane. Sarà il tempo a dirci se, finalmente, il Pd riuscirà a sbarazzarsi del commissario regionale, Stefano Graziano, dopo l’ennesimo insuccesso. Sarà sempre il tempo a dirci se l’avventura di Luigi De Magistris fosse solo un mini tour per garantirsi un posto al sole dopo la fine del suo mandato da sindaco di Napoli. Sarà il tempo a dirci cosa può fare il Movimento 5 Stelle dentro le Istituzioni, dato che, per la prima volta avrà dei suoi rappresentanti a Palazzo Campanella. E sarà sempre il tempo a dirci se la politica, in Calabria, possa essere anche donna. Il risultato schiacciante fuoriuscito dalle urne per il centrodestra, infatti, ci dice anche che la doppia preferenza di genere ha funzionato. Per la prima volta, infatti, la Calabria andava al voto con questa possibilità di scelta. E a Palazzo Campanella entreranno sei donne. Cinque della maggioranza, più la candidata sconfitta del Pd, Amalia Bruni. Ora tocca alle elette dimostrare di essere all’altezza. E non solo di essere donne. Non ci interessano le distinzioni di genere. Le uniche distinzioni sane, in questo mondo, dovrebbero essere quelle di valore.

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E, allora, tutto questo lo vedremo. E’ banale. Banalissimo scriverlo. Qualcosa che un giornalista non dovrebbe mai scrivere per non cadere nell’ovvietà. Ma è altrettanto vero che un giornalista debba commentare ciò che è accaduto più di ciò che avverrà. Facciamo già tanta, tantissima, fatica a raccontare la “scena”. Figuriamoci se siamo in grado di svelare i “retroscena”.

E ciò che è accaduto, in maniera inequivocabile, è che in Calabria sia andata a votare sostanzialmente la stessa quantità di persone, rispetto alla già bassissima affluenza del gennaio 2020. In mezzo, la triste morte di Jole Santelli. Ma anche, ovviamente, la pandemia da Coronavirus. Che ci ha insegnato quanto sia importante essere ben amministrati. Avere quelle persone di valore di cui si parlava prima nei posti giusti. Rectius, ci avrebbe dovuto insegnare. Perché bisogna uscire dalla retorica della responsabilità tutta in capo alla politica o alla classe dirigente tout court.

Perché se non si va a votare, esercitando un diritto/dovere che non è così scontato in tutto il mondo, allora la colpa è del cittadino. E siamo un po’ stufi (in realtà da un bel po’ di anni) di chi appoggia la vittimizzazione del calabrese medio. Che in tante, tantissime, vicende lo è. Ma che in altrettante è il carnefice di se stesso. Perché, vedete, se va votare poca gente a Milano, ci saranno certamente dei motivi. Ma motivi che vanno comunque a inserirsi in un contesto che, tutto sommato funziona.

Non in una regione in cui ‘ndrangheta e malaffare imperversano. In cui migliaia di famiglie sono sotto la soglia di povertà. Con emergenze costanti (e che, quindi, non sono più tali per definizione). Dai rifiuti, all’acqua, passando per il territorio e i trasporti. Una terra in cui ci sono città senza biblioteche. Senza teatri. In cui per vedere la prima in Italia del nuovo film di James Bond si deve cambiare città. Perché altrimenti non si ha la possibilità di appagare subito la propria curiosità.

E, però, la gente non va a votare. Anche il moto d’orgoglio che, a guardare i social, sembrava uno tsunami a favore di Mimmo Lucano, si è dimostrato quello che è, spesso, in Calabria. Una farsa. Dei cittadini, s’intende. La solita iperattività virtuale, che non passa mai ai fatti. Con i “soliti noti” che fanno incetta di voti. Con numeri palesemente drogati. Dai 5000 o 6000 voti in su, l’accertamento investigativo dovrebbe essere quasi automatico. Perché solo chi si è candidato almeno una volta sa quanto sia difficile raccogliere questo consenso. Come correre i 100 metri in 6 secondi senza una dose da cavallo di doping.

E, però, in questo quadro desolante della Calabria, viviamo anche uno dei periodi più bui della sua magistratura. Salvo qualche eccezione.

Ma, tutto ciò, non consente la deresponsabilizzazione del cittadino. Che, invece, continua a lavarsene le mani. Salvo poi piagnucolare. E, però, come sempre, aveva ragione Giorgio Gaber nel dire che “Libertà è partecipazione”.

E, allora, va detto: il calabrese non è una persona libera.

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