di Roberta Mazzuca – “Con un preavviso di sfratto di sei mesi, raderei al suolo i campi rom”. “Se cresce con genitori o un genitore gay, parte da un gradino più sotto. Parte con un handicap”. “Quando saremo al governo, polizia e carabinieri avranno mano libera per ripulire la città. La nostra sarà una pulizia etnica controllata e finanziata, la stessa che stanno subendo gli italiani, oppressi dai clandestini”.
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Il lettore riconoscerà forse qualcuna di queste affermazioni, pronunciate da uno dei leader più in vista dei nostri tempi. Un leader che ha fatto della lotta contro l’altro, della battaglia verbale e non contro il diverso, il perno su cui far ruotare l’intera sua carriera politica. Un uomo che ha fatto del racconto distorto e falsato sulle minoranze il suo, ormai ben noto, cavallo di battaglia. Un racconto che è funzionale ad introdurne un altro, che però si discosta totalmente e inesorabilmente da quello che siamo abituati a vedere e ascoltare. Un racconto che parla di minoranze e diversità sotto un’altra prospettiva, l’unica che aiuta a comprendere realtà differenti da quelle che viviamo ogni giorno, culture lontane da quelle nelle quali siamo cresciuti, mondi a noi sconosciuti, ma ricolmi di storia, cultura, tradizione, e pieni di quella stessa dignità e quella stessa voglia di riscatto che, a chiunque si sia sentito per un breve istante emarginato nella vita, è appartenuta. Stiamo parlando di “Arberia”, film uscito nel 2019 e diretto da Francesca Olivieri, che racconta il ricco bagaglio culturale della minoranza linguistica arbereshe e che è sbarcato finalmente su Netflix. Il film, prodotto da Open Fields Production e distribuito da Lago Film, ha la particolarità di essere il primo lungometraggio interamente in lingua arbereshe nella storia del cinema, ottenendo, non a caso, il Premio del Pubblico al Dea Film Festival di Tirana e il riconoscimento come film d’essai dal ministero per i Beni Culturali.
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Omosessuali, migranti, rom, neri, musulmani, ebrei. Potremmo fare una lunga lista di quante e quali sono le minoranze su cui spesso si scaglia la rabbia e l’ignoranza altrui. I calabresi stessi, in alcuni casi, fanno parte di una minoranza discriminata e tacciata da una porzione marcia del nostro Paese come popolo di mafiosi e inconcludenti. Gli altri, che spesso siamo anche noi, non sono nulla di più che realtà non sempre conosciute, e per questo svalutate nell’importanza storica e culturale che invece possiedono, e che, come per tutte le comunità, deriva da tradizioni, usi e costumi che a quella comunità appartengono. Proprio di minoranze linguistiche, quelle che ritroviamo nel lungometraggio di Francesca Olivieri, è ricca in particolar modo la Calabria. Alcuni nomi di borghi e paesi hanno origine dall’arabo: Amantea, in provincia di Cosenza, deriva probabilmente dall’arabo Al-Manti’ a’ (“luogo elevato”), così come Molochio, in provincia di Reggio Calabria, deriverebbe dall’egiziano molokhiyya (“frutta estiva”). Buona parte della popolazione calabrese è, contemporaneamente, greca, latina e araba: una condizione etnolinguistica esclusiva, che ha creato nel territorio un insieme unico di tradizioni e di usanze che sono ancora oggi radicate. C’è, poi, in tutta questa contaminazione di lingue e tradizioni, una comunità più vasta e numerosa, quella degli Albanesi di Calabria, o meglio Arbereshe, che discendono dall’eroe Giorgio Kastriota Scanderberg e giungono in Calabria a cominciare dal XV secolo, con un flusso migratorio proseguito fino al XVIII secolo. La posizione geografica, e soprattutto le aggressioni subite dai Turchi, hanno avuto la loro importanza in questo massiccio esodo dall’Albania. Ma rilevanti sono da considerarsi anche i rapporti che, durante il Medioevo e fino all’età moderna, legarono l’Albania al Regno di Napoli.
Ed ecco che “Arberia” racconta esattamente, attraverso l’intreccio narrativo del film, i sentimenti di nostalgia, di conflitto con il passato e le proprie origini, ma anche il senso di appartenenza alle radici di questa fervida e cospicua comunità presente non solo in Calabria, ma anche, ad esempio, in Basilicata. Ambientato in un paesino italo-albanese ai piedi del Parco Nazionale del Pollino, il film ha come protagonista Aida Greco, una sarta che ha imparato il mestiere dal padre e che si è trasferita in una città del centro-nord, dove ha aperto un atelier di moda. Accade, però, che Aida debba tornare a casa per commemorare la morte del padre, e in quel momento si troverà ad affrontare alcuni conflitti con il fratello Ascanio. Lì rivivrà quella vergogna di essere un’italoalbanese che l’aveva accompagnata durante la sua adolescenza, e che si trasformerà in una serie di incubi che sconvolgeranno se stessa e il destino del suo paese di montagna. Questa, in sostanza, la trama di un film che va al di là di un semplice resoconto, perché riesce a indagare i legami intensi e l’eredità culturale della specificità di una comunità come quella arbereshe che ancora sopravvive in molti borghi italiani. Aida si vergogna della propria identità, scappa per liberarsene, per cercare il proprio posto nel mondo, che non sente essere quello in cui è nata e cresciuta. Un destino in cui molti calabresi si ritroveranno, la paura di provenire da una terra che non concede abbastanza opportunità, il desiderio di partire, il coraggio di farlo, la necessità di tornare a casa. La vergogna provata di fronte ad affermazioni quali “Ah, tu sei del sud”, “Ah, calabrese”, “Ah, dove c’è la mafia”. La bellezza di scoprire che non c’è nulla di cui vergognarsi, che le proprie radici, seppur difficili da portare con sè, rappresentano una ricchezza, un valore aggiunto, un segno che distingue e caratterizza la nostra identità. Così, quando si torna a casa dopo averla cercata altrove, quell’identità riemerge ancora più forte, trasformandosi in dignità e rispetto verso le proprie origini. È per questo che Aida riprenderà l’uso della sua lingua materna, l’Arberisht, parlato anche questo da una minoranza di donne, che hanno mantenuto in vita delle tradizioni antiche, in equilibrio tra senso della memoria e desiderio di emancipazione.
Proprio in riferimento alle donne e all’assonanza con una storia che ricorda il nostro essere calabresi, è importante citare, all’interno del cast, la giovane attrice Denis Sapia, talento di Corigliano-Rossano conosciuta già al grande pubblico, che interpreta proprio l’alter ego di Aida, il suo fantasma, la protagonista delle sue visioni ad occhi aperti e dei suoi incubi notturni. Il ruolo della protagonista è, invece, affidato a Caterina Misasi, attrice romana di origini calabresi nota al grande pubblico per le sue partecipazioni sul piccolo schermo in “Un medico in famiglia”, “Centovetrine”, e “Vivere”. A lei si affianca la giovane co-protagonista Brixhilda Shqalsi, attrice di origine albanese. Un film, insomma, che attraverso gli occhi della protagonista Aida, si fa carico del ricordo dell’identità di un’intera comunità, quella degli arbereshe, che ha dato origine al territorio dell’Arberia. Un luogo che di fatto non esiste, ma che, nonostante questo, riesce a restituire tutta l’intensità di un conflitto tra tradizione e modernità, tra senso di appartenenza ed estraneità, in un racconto che è la rappresentazione di un viaggio alla costante ricerca di se stessi e della propria identità. Una decisione importante, allora, quella operata da Netflix, che darà agli spettatori l’opportunità di conoscere quello che da sempre ci spaventa: la diversità.